La Lettura, 5 febbraio 2022
Intervista a Jorge Coulón, fondatore degli Inti-Illimani
«El pueblo unido jamás será vencido»: è superfluo ricordare la popolarità di questo manifesto canoro, reso celebre in Europa e in America Latina dagli Inti-Illimani, in cui si esortavano all’unità lavoratori e genti oppresse dai regimi dittatoriali per creare, attraverso la solidarietà umana, un mondo più giusto ed egualitario. Ora che il vento del «rinnovamento» sta soffiando in Cile, in Honduras, in Perù, in Colombia e in Brasile (dove si voterà a ottobre) la ola delle canzoni di protesta torna a propagarsi in tutto il continente. Così – a quasi cinquant’anni dall’inizio del loro esilio in Italia a causa del colpo di Stato (11 settembre 1973) del generale Augusto Pinochet che costò la vita al legittimo presidente Salvador Allende – il famoso gruppo cileno ritorna nella loro seconda patria con cinque tappe in programma tra il 13 e il 18 marzo.
Si tratta di un tour, organizzato in collaborazione con Amnesty International Italia e con il cantautore Giulio Wilson, a sostegno dei diritti umani e, in particolare, di quelli dei migranti. Tra i musicisti, c’è anche Jorge Coulón Larrañaga, uno degli storici fondatori degli Inti-Illimani. Specialista degli strumenti a corda (suona la chitarra, il tiple colombiano e il cuatro venezuelano), Coulón ricopre un ruolo di primo piano nella vita musicale e politica del Cile: è stato direttore del Parco culturale di Valparaiso e del Centro culturale di La Florida, più volte candidato per partiti di sinistra alle elezioni, uno dei fondatori del movimento cileno per redigere una nuova Costituzione e grande sostenitore di Gabriel Boric, il nuovo giovane presidente del Cile.
L’amore per la musica e la passione civile mantengono vivo l’entusiasmo di questo giovanotto di 74 anni che ne ha vissuti più di quindici in Italia: qui sono nati e cresciuti tre dei suoi cinque figli.
Jorge Coulón, ricominciamo dall’inizio. Da dove deriva il nome Inti-Illimani e quando è stato fondato il gruppo?
«Circolano molte leggende. Ma significa “sole” (Inti è il dio del sole nella cultura inca) “della montagna Illimani”. Una montagna molto bella e davvero impressionante che svetta su La Paz, in Bolivia. Nel 1966, quando la sinistra vinse le elezioni studentesche nella facoltà di Ingegneria, nacque l’idea di formare un gruppo musicale per sottrarre i nostri giovani colleghi, con un pizzico di musica e di arte, ai freddi calcoli dei numeri. Dal primo nucleo originario di 25, abbiamo dato vita a un altro gruppo per suonare soprattutto musica andina. Ancora, però, non avevamo un nome. Lo trovammo, per caso, il 6 agosto, quando un nostro amico figlio di un boliviano, Eulogio Dávalos, ci invitò alla celebrazione del Giorno della Bolivia. Così, durante la festa ci battezzarono con l’appellativo di Inti-Illimani...».
Sin dall’inizio il gruppo ebbe un legame con l’impegno politico?
«In Cile, nel 1967, era difficile frequentare l’università e non essere impegnati in politica. Noi, però, abbiamo iniziato a fare musica perché amavamo gli strumenti andini. All’inizio, addirittura, abbiamo eseguito musica pura, senza sentire l’esigenza di cantare. Il nostro repertorio si è poi allargato a tutta la tradizione musicale dell’America Latina. Ma molti studenti ci chiedevano di aprirci alle canzoni di protesta. Così abbiamo interpretato canzoni cilene, come quelle di Violeta Parra, e successivamente, in collaborazione con Víctor Jara, ci siamo dedicati anche a canzoni di impegno sociale. Però siamo stati soprattutto un gruppo di musica popolare. Ma anche la musica popolare ha diritto di fare politica...».
Il 1973 – ormai quasi cinquant’anni fa – fu un anno cruciale non solo per il Cile...
«Nel 1973 avevamo organizzato il nostro primo tour europeo. Eravamo sei (con qualche piccolo cambiamento nella fase iniziale): io e altri cinque musicisti (José Seves Sepulveda, Horacio Salinas Alvarez, Horacio Duran Vidal, José Miguel Camus e Max Berrú Carrion). Arriviamo a Milano il 5 settembre. Ma, lo ricordo ancora come se fosse oggi, l’11 settembre, mentre eravamo in Vaticano per visitare la cupola di San Pietro, un compagno della gioventù comunista, dopo avere percorso velocemente i quasi 800 scalini, ci raggiunse senza fiato per avvisarci che in Cile c’era appena stato un golpe. Fummo ricevuti da Gian Carlo Pajetta, dirigente comunista, che ci invitò a restare in Italia. Stava iniziando per noi un lungo e doloroso esilio. In ogni caso, non era più possibile rientrare in Cile, perché il consolato ci aveva negato i passaporti. Privi di documenti, abbiamo viaggiato per più di cinque anni con un “Titolo di viaggio per stranieri” che ci era stato fornito dall’Italia».
Che cosa ricorda del soggiorno in Italia?
«Avevo 25 anni quando è iniziato l’esilio. E solo a 40 sono rientrato in Cile. Ho avuto la fortuna di vivere per più di 15 anni in un Paese meraviglioso: ho sempre considerato l’Italia di quegli anni il centro della cultura mondiale...».
In che maniera il pubblico italiano ha accolto i vostri concerti dell’esilio?
«Siamo stato i primi a tenere concerti negli stadi: il pubblico rispondeva con grande entusiasmo alla nostra musica e manifestava una sincera solidarietà per la nostra condizione di esuli. Ricordo, ancora con emozione, alcuni indimenticabili appuntamenti: 18 mila spettatori al Palasport di Milano, e poi gli stadi stracolmi di Pisa e Lucca, e altre migliaia anche al Palasport di Bologna e in Sicilia. Un grande successo durato almeno quattro anni, dal 1974 al 1978. In questo lungo periodo ho vissuto a Genzano e a Roma. Ma ricordo con affetto anche Perugia dove ho frequentato l’università...».
Dopo il golpe siete diventati gli ambasciatori della libertà del Cile e della lotta contro le dittature militari...
«Sì, senza dubbio. Il nostro obiettivo, però, è stato sempre quello di ritornare in Cile. Ogni cosa era subordinata a questo sogno. Per coltivarlo, ci siamo avvalsi anche della solidarietà internazionale...».
Che cosa ricorda del rientro in Cile?
«È stata una situazione emotiva molto strana: dopo quindici anni di esilio avevamo perso i legami con la realtà quotidiana del nostro Paese. A poco a poco, ho ritrovato quella sensazione di appartenenza che avevo perduto. Era cambiato il Cile, ma anche noi eravamo cambiati. Non potrò mai dimenticare il giorno in cui siamo atterrati a Santiago: c’erano oltre 10 mila persone ad aspettarci. E quattro giorni dopo oltre 250 mila spettatori erano presenti al nostro primo concerto. Eppure, nonostante questa affettuosa e calorosa accoglienza, si percepiva anche un risentimento, molto sotterraneo e probabilmente inconsapevole, nei confronti di chi, in esilio, non aveva potuto vivere i drammi della dittatura. Era comprensibile: nel corso di tantissimi anni, durante il coprifuoco, ogni sera spariva gente e per le strade non mancavano mai arresti e sparatorie. Io e gli altri componenti del gruppo non avevamo mai vissuto queste terribili esperienze. Siamo stati accolti come il simbolo della rivolta e della protesta, ma nelle relazioni quotidiane avvertivamo anche il disagio di chi era stato costretto a vivere lontano dal Cile...».
Nel corso degli anni, dal 1988 in poi, il gruppo degli Inti-Illimani ha rappresentato «un mito», costruito anche sulle canzoni di protesta...
«Noi abbiamo in Cile questa doppia personalità: siamo un gruppo simbolo dell’epoca della dell’Unidad popular e della resistenza a Pinochet, ma siamo anche rispettati per il nostro lavoro di musicisti. In un certo senso, la nostra generazione ha favorito, nell’America Latina, una “rivoluzione” politica e musicale: abbiamo proposto un recupero della nostra identità musicale, contro modelli internazionali imposti dall’industria commerciale, e nello stesso tempo abbiamo continuato a fare politica attraverso la musica e le nostre offerte culturali».
Poi, però, è anche arrivato il tempo degli addii e delle separazioni?
«È stato doloroso, nel corso degli anni, confrontarsi con addii e separazioni. Questo, in misura minore, era anche accaduto in Italia. Ma, dopo il nostro ritorno in Cile, alcuni compagni hanno scelto di abbandonare il gruppo: prima José Seves, poi Max Berrú e successivamente Horacio Salinas. Si è trattato sempre di scelte individuali, motivate soprattutto dalla nascita di nuovi interessi. Il nostro gruppo ha comunque continuato, con costanza, a tenere un centinaio di concerti all’anno. Solo in questo ultimo biennio, a causa del Covid, i ritmi si sono allentati: ho conosciuto, per la prima volta nella mia vita, cosa significhi restare due settimane in casa senza viaggiare. Dal 2004 è nato un nuovo gruppo che ha scelto di chiamarsi Inti-Illimani storico. Noi, Inti- Illimani, abbiamo continuato la nostra attività senza interruzioni».
Negli ultimi tempi, l’America Latina sta vivendo una nuova fase politica che prefigura una «svolta». Come ha vissuto la vittoria del progressista Boric in Cile?
«Durante le primarie della sinistra ho sostenuto l’avversario di Boric: Daniel Jadue, sindaco del partico comunista di Recoleta, a nord di Santiago. Ma, dopo la vittoria di Boric, tutta la coalizione si è impegnata nella campagna elettorale, perché lui era diventato il candidato unico dell’intero schieramento. Devo riconoscere che è stato abilissimo a convincere moltissimi cittadini ad andare a votare. È riuscito a sovvertire clamorosamente una consolidata tendenza: negli ultimi trent’anni, in Cile, sempre meno gente si è recata a votare. Boric è riuscito così a battere due record: ha fatto registrare una partecipazione popolare superiore al 60% (contro una media che da lungo tempo si era attestata al di sotto del 50%) ed è stato in grado di farsi eleggere con il 56% dei consensi. Mai in Cile si erano visti risultati tanto eclatanti. A questo bisogna aggiungere anche un terzo record: Boric, il presidente più giovane della storia del nostro Paese, ha marcato uno straordinario cambio generazionale. Tantissimi giovani, che non hanno conosciuto direttamente la dittatura di Pinochet, ora sono al potere grazie a lui. Molti di loro sono stati protagonisti delle lotte studentesche del 2006 e oggi sono parte del nuovo governo in cui – mi pare giusto sottolinearlo – su 24 ministri figurano 14 donne».
Che cosa si aspetta da Boric per il futuro del Cile?
«Quelli della mia generazione sanno bene che il nostro presidente troverà una grande opposizione nella destra, che farà di tutto per rendergli la vita impossibile. Ma sono sicuro che la sua capacità di mobilitare i cittadini sarà fondamentale per riuscire a risolvere i problemi di fondo che affliggono il Paese. Boric, per ora, non ha una maggioranza solida in Parlamento. Ed è stato costretto ad appoggiarsi a partiti che, soprattutto a parole, dicono di collocarsi a sinistra (penso al Partito socialista) e a settori progressisti della Democrazia cristiana. Qui sta la grande difficoltà: tutti speriamo che il Cile possa vivere una stagione di cambiamenti, ma Boric sa bene che adesso sarà costretto a negoziare. La sua scelta del ministro dell’Economia, Mario Marcel, presidente della Banca centrale, è un segno di questo compromesso, una maniera per rassicurare i mercati. Tuttavia, presto lo scenario potrebbe mutare, perché a luglio dovremo votare per la nuova Costituzione. Può darsi che un cambio del sistema parlamentare accelererà i processi di rinnovamento. Ritornare a votare significa avere una grande opportunità per modificare gli equilibri parlamentari. Ora il nuovo governo, con l’attuale Parlamento, non ha quella libertà di manovra per realizzare le grandi riforme necessarie».
Però il vento sta cambiando in America Latina...
«Mi viene in mente il periodo precedente alle dittature militari. In questi anni, la destra ha fatto talmente male in America Latina (in Argentina, ad esempio, e in Brasile) che la gente sta votando a sinistra. Ma, va detto con chiarezza, i successi della sinistra negli anni Settanta-Ottanta sono piuttosto frutto di un demerito della destra che di una convincente offerta alternativa di governo. Dobbiamo cominciare a lavorare per la nostra proposta politica, affinché la sinistra torni a essere espressione popolare. Sono sicuro che Boric sarà in grado di farlo per il nostro Cile».
Già stanno arrivando per voi numerosi inviti. La nuova presidente dell’Honduras, Xiomara Castro, che si è insediata il 27 gennaio scorso, vi ha chiesto di tenere un concerto. Anche il Brasile è nella vostra agenda?
«Il Brasile è andato troppo a destra in questo periodo e per tornare a suonare lì occorrerà il ritorno di Lula: gli ultimi anni di Bolsonaro sono stati terribili. In Honduras eravamo stati invitati a tenere un concerto in occasione dell’insediamento di Xiomara Castro. Ma la pandemia ha imposto un rinvio».
In marzo è in programma anche il tour in Italia...
«Faremo cinque concerti in diversi teatri. La nostra idea è un ritorno in Italia, dopo quasi cinquant’anni dal golpe, per riabbracciare il pubblico. Ma, senza togliere nulla al mito, vogliamo fare ascoltare la nostra musica e presentarci anche per quello che siamo diventati».
C’è bisogno di nuova musica...
«Certo. Ma anche nuove tematiche che, al di là delle parole d’ordine e degli slogan del passato, sono in questo momento al centro della nostra musica. Ora il mondo ci chiede di confrontarci con problemi urgenti: penso ai migranti, all’acqua pubblica, al riscaldamento climatico e alla salvaguardia del pianeta...».
Il tour italiano, secondo l’accordo con Amnesty International Italy, punta a difendere i diritti dei migranti...
«Ho vissuto 15 anni da migrante. E li ho vissuti, chiaramente, in un contesto favorevole. Ma ho imparato una cosa: quando parli con qualcuno, e lo guardi negli occhi, le differenze scompaiono. Non servono i passaporti per intrecciare relazioni umane. L’essere umano è per sua natura un migrante: siamo tutti migranti. Penso all’Italia: magnifico incrocio di popoli, lingue, culture. E penso anche ai Paesi latino-americani: siamo figli di un intreccio di molte civiltà e di ogni sangue. La strumentalizzazione politica dell’identità e della territorialità è un terribile male dei nostri tempi».
Una sola patria è troppo stretta?
«Certamente. Mi sono sempre considerato italiano, perché l’Italia è stata per me una nuova patria».