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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Ritratto di Maria Corti

L’ammirazione è un motore formidabile della trasmissione culturale e non solo culturale, e Maria Corti era innanzitutto una persona che ammirava con grande slancio i propri maestri ed era ammirata con altrettanta partecipazione dai suoi allievi. È stata insomma un crocevia di conoscenze e di passioni nel campo della critica, della filologia, della storia della lingua e della letteratura. Una donna che ancora viene ricordata con un misto di tenerezza e di orgoglio da chi può condividere con altri, come sopravvissuti a un tempo remoto, il privilegio di esserle stati amici. Raramente si trova un tale maestro nel senso più pieno della parola: generosità e severità. I suoi titoli che meglio ne riassumono il carattere sono Il viaggio testuale e La felicità mentale, libri fondamentali che spaziavano dal Medioevo al Gruppo 63 «con bussola semiotica». Maria Corti era una viaggiatrice instancabile nei testi, spinta dalla curiosità o, meglio, dalla stessa curiositas che suggerì a Ulisse di oltrepassare le Colonne d’Ercole: quell’ardore di conoscenza su cui non a caso si concentrò una sua memorabile lettura del XXVI dell’Inferno. Era anche, Maria Corti, il ritratto della felicità mentale quando parlava di ciò che le stava a cuore, un’avventura intellettuale, una lettura, una ricerca, una scoperta, un incontro sorprendente. Doveva avere un segreto forse inconsapevole che le permetteva di trasmettere ai suoi ascoltatori, non soltanto gli allievi, i propri entusiasmi. Cesare Segre, che le fu compagno per diversi anni, dopo avere illustrato i molti meriti della studiosa, concluse così il suo ricordo sul «Corriere della Sera» del 24 febbraio 2002: «Credo però che il capolavoro della Corti sia stato il suo insegnamento: per la sua capacità di comunicare non solo sul piano metodologico, ma su quello umano».
Nessuno dei suoi allievi ha mai potuto dimenticare certe lezioni degli anni Settanta, nell’aula maggiore, la VII, del cortile di Lettere a Pavia, quando Maria Corti cominciò a occuparsi dell’aristotelismo radicale di Dante: rapiti com’erano dall’inarcarsi della voce nei momenti-chiave dell’argomentazione, sempre stringente e sempre abbrancata alla lettura dei testi. Sembrava un dialogo a tre: lei con gli studenti e con Dante lì presente, cui via via si aggiungevano le voci di Cavalcanti, di Brunetto, di San Tommaso, di Sigieri di Brabante, di certi filosofi i cui nomi l’uditorio sentiva per la prima volta, come Boezio di Dacia. E lo stesso fascino proveniva dai corsi sul neorealismo e la neoavanguardia, suoi cavalli di battaglia degli anni precedenti. Il bello era che per la Corti tutti gli argomenti diventavano materia di una critica militante, tale era la forza empatica con cui ne parlava: il tono entusiasta non cambiava se trattava di Luigi Malerba o di Giorgio Manganelli, suoi contemporanei e amici, o se parlava della grammatica speculativa medievale.
Non è escluso che quell’arte naturale di comunicare sia stata affinata dalla vicinanza dei suoi grandi maestri, il linguista Benvenuto Terracini, con il quale si laureò a Milano, e il filosofo Antonio Banfi, con cui ottenne, sempre a Milano, la seconda laurea e alla cui cerchia antifascista fu molto legata. Né è escluso che la generosità materna e capricciosa, a volte fin troppo indulgente altre volte fin troppo intransigente, si sia esercitata nei lunghi anni di insegnamento nei ginnasi e nei licei a Como, a Brescia e a Milano, prima che in università.
Infatti, Maria Corti, a differenza di tanti suoi colleghi, arrivò in cattedra piuttosto tardi, alle spalle un’esperienza di docenza nelle scuole, che la costrinse a fare la pendolare con tanti operai su certi carri-bestiame, ogni mattina e ogni sera, tra Chiari, nel Bresciano, e Milano, dove abitava. Treni di terza classe che diventeranno protagonisti in Cantare nel buio, il romanzo autobiografico nato nel 1948 ma lasciato nel cassetto per oltre quarant’anni e pubblicato nel ’91 dopo una profonda rielaborazione. Ne venne fuori uno dei suoi libri migliori in cui la Corti, su un impianto apparentemente sociologico e realistico, innesta forti dosi di «selvaggio abnorme fantastico» con aperture di autentica visionarietà. È una scrittrice che viaggia liberamente, Maria Corti, come la studiosa, alla ricerca perenne di qualcosa, partendo da spie e indizi. La studiosa era una detective, come scrisse Umberto Eco, che recensendo Dante a un nuovo crocevia parlò di un metodo indiziario alla Sherlock Holmes. Del resto, già Giorgio Petrocchi l’aveva chiamata una «Perry Mason della letteratura». Più della filologia in sé, è l’indagine filologica a interessarla, ha scritto Mariarosa Bricchi. Ai suoi allievi raccomandava di concentrarsi sui particolari per estrarre dai testi i fantasmi nascosti.
Anche nella scrittrice si scorgono i tratti essenziali che sempre Bricchi individua nella studiosa: «Voglia di sperimentare, disposizione a buttarsi a capofitto in metodi nuovi, poca stanchezza e molti entusiasmi», dove ciò che si dice dei «metodi» (che in un famoso titolo si affiancano ai «fantasmi») può valere tranquillamente anche per la variabilità delle formule narrative: basti sfogliare la vasta gamma dei titoli, tra pseudo-romanzo storico, racconto fantastico-fiabesco o epico, narrazione di ispirazione memorialistica, conte morale, ricostruzione documentaria, diario di viaggio, saggio narrativo.
Arrivò alla cattedra universitaria tardi, alle spalle un’esperienza di docenza
nelle scuole, che la costrinse a fare
la pendolare ogni mattina e ogni sera
Maria Corti, nata a Milano nel 1915 da un padre ingegnere milanese operante in Puglia, rimasta orfana di madre a dieci anni, finita educanda nel collegio delle Marcelline, infelice, sola e desiderosa di evadere (ci provò ma fu riacciuffata), poté fuggire da quella prigione soltanto con le letture che le venivano concesse dalle suore. Disse che a quel tempo le capitò di imparare da uno «scrittore corroborante» come Tagore che «ogni giorno porta con sé una sorpresa e questa sorpresa è la vita». E da un’edizione di aforismi del 1918 apprese che: «Un cervello tutto logica è un coltello tutto lama; fa sanguinare la mano che l’adopra». In lei ha una particolare influenza la geografia degli affetti. Due o tre luoghi in particolare: oltre a Milano e a Pavia, dove insegnerà a partire dal 1964, la casa paterna di Pellio Intelvi, suo buen retiro con l’unica compagnia delle faine, e il Salento, Lecce (sua prima sede di insegnamento universitario), Maglie e Otranto, dove raggiungeva spesso il padre, che nel frattempo aveva sposato una donna pugliese.
Anni fa, Paolo Mauri parlò ironicamente delle Tre Marie: la studiosa (filologa, storica della lingua, semiologa e teorica), la narratrice e la critica militante, cioè la lettrice straordinaria di libri in uscita (collaborò per il «Giorno», per «Panorama» e per «la Repubblica») e l’animatrice di riviste. A cominciare da «Strumenti critici», fondata nel 1966 in condirezione con Dante Isella, Cesare Segre, d’Arco Silvio Avalle, tutti a loro modo innovatori della critica. Senza dimenticare il mensile «Alfabeta», attorno a cui si raccoglieva un eterogeneo gruppo di amici, oscillanti tra ex neoavanguardia, semiotica e critica accademica, intellettuali cui Maria Corti era molto legata: tra tutti Antonio Porta, Umberto Eco, Paolo Volponi, Nanni Balestrini, Francesco Leonetti, Mario Spinella, Alberto Arbasino… Infine, «Autografo», la rivista voluta dalla quarta Maria, l’ideatrice del Fondo manoscritti dell’Università di Pavia. Una creatura che muove dagli interessi della studiosa per i «percorsi dell’invenzione», cioè per i processi che precedono la scrittura. Era il suo spaziare generoso un attivismo che le faceva guadagnare le ironie accigliate dell’accademia in cui le donne, se c’erano, erano cordialmente pregate di stare al loro posto. Mentre Maria Corti prevaricava volentieri, con divertimento e a volte con una dose di tenera ingenuità. Per qualcuno era una «Vispa Teresa», lei lo sapeva benissimo ma alzava le spalle e tirava dritto, magari aggiungendo ai suoi interessi di studio una puntata sul rock demenziale o sui telefilm polizieschi (di cui andava matta), un parere sulla parodia di Va’ dove ti porta il cuore realizzata da Daniele Luttazzi, una sferzata sulle classifiche o sulle pagine culturali. Tutte cose che gli accademici guardavano con sospetto e con irrisione.
Tra le sue grandi opere va inserito l’archivio pavese di autografi, di cui era molto fiera: lo creò a partire dal 1968 con un primo nucleo di carte che ottenne in regalo da Eugenio Montale (dei bloc notes con varie redazioni di poesie) e dall’amato Romano Bilenchi. Si aggiunsero alcuni manoscritti di Carlo Emilio Gadda (oggi è uno dei maggiori archivi letterari italiani ed è presieduto da Giuseppe Antonelli). Maria Corti mise in quell’impresa tutte le sue energie, viaggiava in Italia per discutere e trattare, raccogliendo documenti dei maggiori scrittori del Novecento (inutile fare i nomi: ci sono quasi tutti).
Ne nacque un libro con un altro titolo formidabile, che ricordava Metodi e fantasmi. Era Ombre dal fondo, apparso nel 1997 come una sorta di bilancio e di memoriale e che ora viene riproposto sempre da Einaudi con una prefazione di Mauro Bersani, che è stato tra gli allievi prediletti di Maria Corti. Ci sono le amicizie, le passioni letterarie, gli incontri casuali, gli ostacoli burocratici, le battaglie, le delusioni e le gioie che ne derivarono. Registro delle acquisizioni, una sorta di «catasto magico», lo definisce Bersani (ogni acquisizione una storia a sé), racconto anche autobiografico, una sorta di «concerto» che mescola stili diversi (il comico e il lirico, il morale e il saggistico-teorico), libro stratificato dalla lunga elaborazione che associa il fascino delle carte al percorso della creazione artistica. Un libro che offre abbondante materia filologica, stilistica, storica-culturale per gli studiosi che verranno: «Quello che già si può fare – scrive Bersani – è respirare l’aria che avvolge la scrittura del libro, coglierne la passione che lo innerva attraverso le furiose cancellature e riscritture, le rilevanti modifiche della grafia da un foglio all’altro». Ma il fantasma, aggiunge, rimarrà fantasma. «È per questo che la letteratura continuerà ad affascinarci e a nutrirci, come si augurava Maria: nel libro e in tutta la sua vita».