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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Dino Petralia. Lascia il Dap per fare il nonno

ROMA Se ne andrà tra un mese, con un anno di anticipo rispetto al limite dell’età pensionabile, per «restituire alla famiglia un po’ del sostegno che mi ha assicurato durante tutta la mia carriera», spiega Dino Petralia, 69 anni da compiere e magistrato da 42, trascorsi quasi sempre «fuori sede»: da Trapani, dove lavorò al fianco di Giangiacomo Ciaccio Montalto assassinato dalla mafia nel 1983, ad altre sedi siciliane, il Csm a Roma e poi Palermo come procuratore aggiunto, procuratore generale di Reggio Calabria e infine – dal maggio 2020 – direttore delle carceri italiane, a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
«A Natale ho trascorso la prima vacanza con una nipotina che oggi ha quattro mesi – racconta – e avendo una moglie giudice, un figlio assessore e un’altra all’estero ho pensato fosse giusto dedicarmi alle loro esigenze. La ministra Cartabia ha compreso le mie ragioni, e insieme abbiamo concordato i tempi della mia uscita».
Il presidente Mattarella ha ricordato che la dignità di un Paese si misura anche da «carceri non sovraffollate che assicurino il reinserimento sociale dei detenuti». Qual è la situazione?
«Il sovraffollamento negli ultimi due anni è calato, da 61.000 presenze a 53.000 circa, sempre troppe rispetto ai posti disponibili. La discesa è dovuta soprattutto al Covid e al conseguente lockdown, che ha provocato una forte riduzione degli arresti e l’aumento delle detenzioni domiciliari. Ora però, con la progressiva uscita dall’emergenza sanitaria gli ingressi stanno risalendo, e i contagi aggravano il problema».
Quanto pesa oggi il Covid nelle carceri?
«Tra i detenuti ci sono circa 3.600 positivi, di cui solo 8 sintomatici e 27 ricoverati; tra il personale abbiamo circa 1.500 contagiati e quattro ricoverati. Le difficoltà derivano dalle esigenze di isolamento dei positivi, perché con gli spazi a disposizione dobbiamo spostare i reclusi non solo da un istituto all’altro, ma a volte anche da una regione all’altra, con gravi disagi per loro e le loro famiglie».
Come si può evitare una nuova emergenza carceraria?
«Servono interventi legislativi per una maggiore attenzione a chi sconta in cella pene minime, anche residue, attraverso un potenziamento dell’esecuzione penale esterna. Su questo l’impegno della ministra è primario, e c’è da augurarsi che il Parlamento la segua. Un maggiore accesso a misure alternative, ad esempio con i lavori di pubblica utilità, significa maggiore potenzialità sociale della pena. Che poi è l’obiettivo indicato dal presidente Mattarella, quando ci ha ricordato che il reinserimento dei detenuti è la migliore garanzia di sicurezza per tutti».
Ma c’è abbastanza lavoro per i detenuti?
«Purtroppo no, sebbene le opportunità siano in aumento. Le carceri sono lo specchio della realtà del Paese, e quindi c’è più lavoro per i detenuti al Nord, anche per via delle imprese che utilizzano la mano d’opera dei detenuti, che a volte offrono prodotti migliori di quelli lavorati all’esterno. Al Sud ci sono meno occasioni, e sarebbe fondamentale ridurre questa disomogeneità geografica. Il lavoro nobilita ovunque, ma in carcere ha una funzione di reinserimento e riscatto ancora più importante».
Anche su questo aspetto la pandemia ha avuto effetti negativi?
Il Covid
Per isolare i positivi siamo stati costretti a spostare i detenuti anche da una regione all’altra
«Certo, perché ha limitato i contatti con l’esterno, diminuendo sia le uscite dei detenuti che gli ingressi degli operatori, ma più in generale ha influito negativamente sul trattamento. In questo senso possiamo dire che il Covid è anticostituzionale, perché costringe alla chiusura del carcere, mentre la Costituzione ci chiede un carcere aperto all’esterno. Io ho provato a riaprirlo, anche grazie all’ottimo rapporto instaurato con il Garante nazionale di detenuti e con le associazioni che lavorano negli istituti, da Nessuno tocchi Caino alla Comunità di sant’Egidio, Antigone e altre ancora, e sono certo che chi resta e verrà dopo di me continuerà a farlo».
L’uso della tecnologia imposto dal Covid ha portato qualche novità positiva?
«Sicuramente l’introduzione delle videochiamate, in sostituzione dei colloqui in presenza, che spero restino anche quando sarà finita l’emergenza. Per un detenuto poter vedere la propria casa, insieme ai familiari, ha un valore enorme, aiuta a stemperare le tensioni e a garantire diritti. Sono frammenti di libertà virtuale da incrementare magari attraverso schermi più grandi, così come bisognerebbe mantenere l’aumento delle telefonate consentite».
Lei è arrivato all’indomani delle rivolte in cui morirono 13 detenuti, con decine di feriti anche tra gli agenti, sulle quali ancora non c’è ancora la verità.
«Siamo in attesa delle conclusioni della commissione ispettiva guidata da Sergio Lari, che è stato uno dei migliori magistrati inquirenti italiani, per verificare ipotetici ma finora non verificati collegamenti tra i diversi episodi, nonché eventuali anomalie da parte della polizia penitenziaria».
E i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere?
«L’indagine della magistratura ha fatto venire alla luce comportamenti inqualificabili e devastanti per l’amministrazione. La visita della ministra Cartabia e del premier Draghi ha segnato una reazione importante, e sono state adottate numerose sospensioni. Ma in generale abbiamo dirigenti e un Corpo di polizia penitenziaria, per cui nutro stima e affetto, che pur vivendo situazioni di disagio si spendono per i detenuti, con punte di eccellenza come il Nucleo investigativo centrale e il Gruppo operativo mobile. Gli incontri e i colloqui con gli agenti intervenuti nelle situazioni di criticità sono stati tra i momenti più importanti di questa esperienza. Una volta in pensione, però, non mi caricherò di ricordi ma di racconti».
Intanto ci racconti un incontro che ricorda più di altri.
«Quello con un agente che per due volte ha salvato la vita a un giovane detenuto che voleva suicidarsi, e le assicuro che capita spesso. Gli raccomandai di raccontarlo ai suoi figli, ma lui mi disse di sentirsi a sua volta figlio, e che l’avrebbe raccontato ai suoi genitori. Potevano esserne fieri».
E l’incontro con un detenuto che l’ha più segnata?
«Resta quello con una persona molto istruita, un laureato, che mi chiese di poter avere l’acqua calda e lo scarico del water funzionante. Mi si rivolse come implorasse un privilegio, invece era un semplice diritto che il nostro Stato non può permettersi di non garantire».