Corriere della Sera, 5 febbraio 2022
Il cappotto di Drusilla
Mi piace pensare che tra le tante ragioni dell’innamoramento collettivo per Drusilla Foer ci sia la riscoperta della lingua italiana. Sul palco di Sanremo, Drusilla ha dato voce alle solite cose belle e buone che si devono dire sul palco di Sanremo. Ma lo ha fatto con una eleganza nella postura e una musicalità nell’eloquio a cui non eravamo più abituati. Il potere vero, l’economia, parla un gergo grottesco a base di «governance». Il potere finto, la politica, sfodera un vocabolario più smilzo di quello di un adolescente: duecento parole abbinate male. L’ultimo caso è la portavoce dei Cinquestelle a cui hanno rubato il cappotto a Montecitorio. Ha scritto di essere «indignata su quanto mi è accaduto». Il cappotto è stato ritrovato, ma la preposizione «per» risulta ancora dispersa.
Un linguaggio misero e stereotipato è ritenuto più rispettoso dei gusti popolari, mentre chi osa mettere insieme due subordinate di senso compiuto viene tacciato di snobismo. È in questo contesto che Drusilla e il suo parlare alto ma non oscuro si sono intrufolati nei tinelli di milioni di italiani, concedendosi persino il lusso di un’imprecazione a mezza bocca quando la nobildonna toscana si è strappata i baffetti alla Zorro. Dopo avere visto sul nostro sito l’intervista di Nino Luca al bravo Gianluca Gori che la interpreta, mi sono convinto che sia proprio la sua trasformazione in Drusilla a compiere il miracolo. Diventare altro da sé per ritrovare il meglio di sé. Non solo il cappotto.