Robinson, 5 febbraio 2022
Intervista ad Antonio Foscari
L’architetto che discende da una delle famiglie più importanti della Serenissima racconta la storia della villa che il maestro del Cinquecento progettò per la sua famiglia E ripercorre una vita di incontri e di bellezza. Da Le Corbusier a Leonardo Sciascia
Tutte le strade che Antonio Foscari ha percorso portano ad Andrea Palladio, a quella Venezia cinquecentesca, sublime concentrato di civiltà, gusto, bellezza. Foscari non dimostra affatto i suoi 83 anni. Il volto ampio e gradevole predispone ad ascoltare la sua storia che incuriosisce per i tratti mondani oltre che personali. Gli chiedo cosa abbia significato Palladio nella sua vita e quanta ossessione occorra per non deludere o non deludersi a fronte di uno sforzo culturale così prolungato; quanta concupiscenza (una parola che piaceva a Manganelli) ci voglia per non deflettere da un pensiero fisso e tuttavia operoso.
Foscari è architetto, ha insegnato nella facoltà veneziana con Manfredo Tafuri del quale è stato amico, prima che tra loro si producesse una rottura; è stato membro del Consiglio d’amministrazione del Louvre.
Parla in modo sommesso del passato. Provenendo da una famiglia ricca di lustri e di storia ci si aspetterebbe maggiore entusiasmo: «Le parole che proteggono», dice, «sono quelle meno eclatanti». «Più si è semplici e alla fine più si risulta credibili», aggiunge. Ho letto con curiosità Tumulto e ordine, un libro nel quale racconta la storia di una casa – a suo modo straordinaria – che Palladio progettò per la sua famiglia: la “Malcontenta”, così fu ribattezzata villa Foscari, un edificio ai margini della Laguna di Venezia che si affaccia sulle rive del Brenta.
Perché villa Foscari è così importante per lei?
«La sua storia coincide in parte con quella della mia famiglia e soprattutto riflette un pezzo di società internazionale che tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso la scelse come luogo alternativo alla vita mondana che si praticava al Lido, sulle spiagge o nelle sfarzose sale dell’Excelsior. Ma forse per raccontare questa storia – che Pierre Rosenberg ha voluto che pubblicassi – dovrei parlarle di Albert Landsberg, Bertie per gli amici, che io conobbi negli anni in cui ero studente di architettura».
Prima mi dica qualcosa della villa nel contesto veneziano.
«Si tratta di un’architettura che Palladio realizzò sulla Riviera del Brenta alla metà del Cinquecento per Nicolò e Alvise Foscari, pronipoti di Francesco Foscari che fu Doge a Venezia per quasi 35 anni. La villa ebbe varie vicissitudini fino a decadere. Quando Landsberg l’acquistò, negli anni Venti, era un granaio. In pratica la salvò dalla rovina».
Chi era Landsberg?
«Umanamente ed esteticamente il prodotto di un mondo che aveva ancora nella bellezza il suo punto di riferimento. Per acquistare la Villa si fece aiutare da Cathérine d’Erlanger, baronessa e moglie di un facoltoso banchiere. Grazie alle ampie risorse finanziarie l’edificio venne ristrutturato. Landsberg era nato in Brasile, ma aveva studiato nei migliori college inglesi; aveva vissuto a Parigi e frequentato tra l’altro le lezioni del filosofo Henri Bergson. Una sera a Parigi, mentre è a teatro, l’amico Paul Rodocanachi gli presenta la baronessa d’Erlanger, amica di Sergej Djagilev. Su di lei, alla vigilia della prima guerra, scriverà pagine intense Paul Morand. In quel periodo, insieme alla nuova amica, Bertie frequenta gli ambienti artistici e si lega a figure come Braque, Picasso, Matisse. Proprio Picasso nel 1922 realizzerà un ritratto di Bertie».
Landsberg come finisce a Venezia?
«È Cathérine a trascinarvelo perché il 1924 è il centenario della morte di Lord Byron. Cathérine e Bertie si regalano un viaggio sulle tracce veneziane del poeta.
Ma c’è anche un altro motivo che li conduce fin lì: il desiderio di conoscere Linda Lee Thomas, una ricca americana che aveva agevolato la carriera artistica del fotografo Cecil Beaton e di Cole Porter».
Cole Porter il musicista?
«Era talmente convinta della sua bravura che pregò Stravinskij di dargli lezione di composizione. Linda sposerà Cole in seconde nozze. E fece venire dall’America la grande giornalista e amica Elsa Maxwell perché ne promuovesse il talento. Su questo sfondo in cui mondanità, arte e vita si mescolano meravigliosamente, si svolge la vicenda veneziana. Sulle orme di Lord Byron, Bertie e Cathérine scoprono villa Foscari e ne restano stregati, al punto che Landsberg decide di acquistarla».
Che cosa ne fece della villa?
«La conservò intatta com’era, intervenendo solo sulle parti che richiedevano un restauro conservativo, come gli intonaci e gli affreschi strappati. Bertie, Cathérine e il loro amico Paul vi abitarono in certi periodi dell’anno.
Ma la frequentarono e vi dormirono numerosi protagonisti della vita intellettuale e artistica dell’epoca, i nomi che ho citato: Diagilev e Nijinski, Cole Porter, Cecil Beaton e Elsa Maxwell. E poi Misia Sert e Le Corbusier, Robert Byron che scrisse La via dell’Oxiana e Bruce Chatwin che vi mise a punto il suo ultimo romanzo Utz. Qui sono passati Andy Warhol e Bob Rauschenberg».
Fu lei o suo padre a riprendere villa Foscari?
«Fui io. Mio padre mi insegnò ad amarla. Era ingegnere.
Dedicava il tempo libero a questo straordinario reperto della memoria. Un’estate mi fece conoscere Bertie.
Prima di morire Landsberg donò la “Malcontenta” al suo amico Claud Phillimore. Da lui l’ho rilevata con l’impegno di conservare tutto com’era».
Immagino che la villa sia costata. Lei è ricco?
«È il solo “lusso” che io e mia moglie Barbara, anche lei architetto in proprio, ci siamo permessi. Abbiamo due figli economicamente indipendenti e la vita che conduciamo a Venezia è abbastanza semplice. Anche se la città non è più la stessa».
Lei non vi è nato.
«Sono nato a Trieste perché mio padre costruiva centrali elettriche. Per il suo lavoro ci trasferimmo in seguito Padova e negli anni della guerra sfollammo a Mira, un comune veneziano non lontano dalla Malcontenta.
Dopo la guerra tornammo a Venezia e per un periodo abitammo nel palazzo di un ingegnere che aveva sposato in seconde nozze mia nonna. Possedeva una biblioteca di diecimila volumi. Lì ho fatto il mio apprendistato di architettura».
Cosa leggeva?
«C’erano tantissimi volumi di storia dell’arte, di architettura, e di storia del paesaggio. Come le dicevo mi sono laureato a 22 anni. La prima persona interessante che conobbi fu Bruno Zevi. Da poco tornato dagli Stati Uniti, portò con sé una grande ventata di novità. Dopo di lui arrivò Leonardo Benevolo. Un bravo docente ma non scattò lo stesso feeling. Invece una persona con cui, fin dall’inizio, mi intesi perfettamente fu Manfredo Tafuri. Ho condiviso molte cose con lui. Insieme lavorammo alla realizzazione di un progetto che ripensasse la struttura del dipartimento di storia dell’architettura. Scrivemmo il libro L’armonia e i conflitti. Il lavoro comparve nella collana “microstorie” di Einaudi, diretta da Carlo Ginzburg».
Perché il rapporto con Tafuri si interruppe?
«Forse non riuscì ad accettare l’idea che io avessi potuto intraprendere il restauro di Palazzo Grassi, che fu un lavoro per me importante, svolto insieme a Gae Aulenti».
Che c’era di male?
«Niente, salvo che Manfredo, nella sua visione rigorosamente ascetica della vita, aveva idee molto personali sulle committenze private. Ad appesantire i rapporti intervennero vedute differenti sulle strategie accademiche».
Il restauro fu fatto negli anni Ottanta.
«Intorno alla metà, e fu un lavoro indiscutibilmente di prestigio che volle personalmente Gianni Agnelli.
Ricordo che ogni tanto, alle sette del mattino, l’Avvocato si presentava direttamente sul cantiere incuriosito dagli interventi e dal lavoro che c’era da svolgere».
Come vi divideste con Gae Aulenti?
«Mi sono occupato della parte strutturale. Gae è stata il prezioso involucro con cui avvolgere il tutto. Sapeva perfettamente capire come piacere e a volte compiacere».
Per lei parlano i suoi “capolavori”.
«Non discuto, ma resto dell’opinione che il vero capolavoro di Gae Aulenti sia stata Gae Aulenti».
Tornerei sulla rottura con Tafuri, accennava a problemi accademici.
«Sono cose ormai lontane e comunque non fui io a rompere. Per me restava intatta la stima verso il suo lavoro e la sua intelligenza. Aveva una visione della Facoltà dove a prevalere dovesse essere la parte storica su quella progettuale. E quando, con l’arrivo di Aldo Rossi, la questione si pose concretamente, Tafuri chiese al corpo accademico di opporsi al suo ingresso. Fui il solo, o uno dei pochissimi, a votare contro quell’interdetto. La nostra vicenda purtroppo si concluse bruscamente».
Le piace ancora Venezia?
«Mi pare che si facciano meno incontri interessanti. Uno in particolare mi è rimasto nel cuore, quello con Le Corbusier. Parlo dei primi anni Sessanta. A quel tempo Le Corbuisier lavorava al progetto dell’ospedale di Venezia. Ricordo ogni frammento di secondo di quella frequentazione intensa e rapsodica. Durante i lavori non amava molto parlare in pubblico. Ma alcune sere con mia moglie Barbara uscivamo insieme a lui per passeggiare. In quei momenti si apriva con qualche dolcezza. I suoi silenzi mi hanno ricordato quelli di Sciascia».
Ha conosciuto Sciascia in che circostanza?
«Era il 1967, l’anno in cui in cui progettai il villaggio turistico di Pollina. Fu Raimondo Craveri, che era stato uno dei fondatori del partito d’Azione, partigiano, intellettuale, ma anche un abile uomo d’affari, a convincermi che il Sud avrebbe potuto trovare più chance nel turismo che non nell’industrializzazione.
Craveri apparteneva a quello “snobismo liberale” che Elena Croce, sua moglie, seppe disegnare mirabilmente in un suo libretto. Fu Craveri a creare la Valtour e a chiedermi di progettare quel villaggio in Sicilia».
Sciascia cosa c’entrava?
«Venne a sapere che avevo suggerito al sindaco del comune di Pollina, che non sapeva come spendere dei fondi, di realizzare un anfiteatro sul punto più alto della città. Accettarono e ci lavorai. Sciascia si incuriosì di questo strano architetto veneziano che non parlava quasi con nessuno e che stava realizzando qualcosa di speciale. Mi volle conoscere. In un primo momento restai incredulo».
Nel senso?
«Mi telefonò dicendo di essere Leonardo Sciascia e pensai a uno scherzo. Aveva un accento marcatamente siculo e visto che insisteva gli risposi in veneziano: “dai vecio, smettila!”. Alla fine mi convinsi che era lui e mi scusai. Ci vedemmo a Racalmuto. Ci accomodammo nel giardino della sua casa. Sembravamo due vecchi amici, improvvisamente a loro agio. In mezzo a prolungati silenzi mi confidò alcune amarezze e la speranza che io accettassi di ristrutturare il teatro di Racalmuto dove negli anni Trenta per la prima volta aveva assistito a un film tratto da Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Da quell’esperienza vissuta da ragazzo, mi disse, era nata la sua passione per il cinema. Accettai l’invito a occuparmi del teatro e in seguito progettai, sempre su interessamento di Sciascia, la realizzazione della Fondazione».
Ritiene importante il contributo di un artista o di uno scrittore alla salvaguardia di un ambiente, di un edificio, di una città?
«Nel caso di Sciascia è stato possibile grazie alla sua indiscutibile autorevolezza. Diceva che a Racalmuto, soprattutto in passato, c’erano state persone illuminate che si erano spese per il bene della città. In generale però non saprei. Di solito gli appelli “in difesa di”, lasciano il tempo che trovano. Quanti proclami sono stati fatti per salvare Venezia?».
Le piace Venezia come è ora?
«Se la domanda implica un sentimento di nostalgia per come era, le rispondo che Venezia non ha più da tempo un popolo ma solo abitanti, per lo più insoddisfatti, e turisti. Sarà difficile tornare indietro. È una città che sperimenta il suo cosmopolitismo a buon mercato.
Quello che accadeva al Lido o alla Malcontenta negli anni Trenta è irripetibile. Mi sento un sopravvissuto. O meglio un solitario. Per necessità quasi antropologica più che per orgoglio o superbia. Sono un solitario senza una vera solitudine».