Robinson, 5 febbraio 2022
Intervista a Emilio Isgrò
Il fantasma dell’opera aleggia dietro l’altare barocco. Nell’oratorio di San Lorenzo, la grande Natività di Caravaggio è scomparsa cinquant’anni fa. Trafugata dalla mafia che la sottrasse al cuore di Palermo consegnandola all’albo dei capolavori rubati più celebri al mondo. Mai come in questo caso una “cancellatura” di Emilio Isgrò ha resuscitato un ricordo. E lo tiene vivo. Perché «il gesto del cancellare non è distruttivo, ma evidenzia una mancanza, la memoria di ciò che abbiamo perduto». Ecco allora lo sguardo struggente di Maria. L’ala di un angelo. Le mani giunte di San Francesco. Quel che resta di Caravaggio lo incornicia oggi il maestro siciliano che ha fatto del suo segno abrasivo una forma d’arte, un linguaggio visivo potente, calato come un sudario su testi famosi della nostra storia: i Promessi Sposi, l’Enciclopedia Treccani, l’Odissea. Dopo quella notte piovosa e nefasta del 1969, Isgrò è il primo artista a salire sull’altare violato, orfano di un dipinto finito nella Top Ten Art Crimes stilata dall’FBI. Al centro di un progetto ideato da Bernardo Tortorici di Raffadali, presidente dell’Associazione amici dei musei siciliani, in collaborazione con la Fondazione Sicilia (fino al 17 ottobre), questa copia cancellata con strati di bianco algido e tragico è l’icona spettrale di una Natività che non c’è più.
Isgrò, qual è stata la sua prima reazione entrando nell’oratorio?
«Ho capito subito che mi si chiedeva di cancellare un fantasma: una foto che era solo la pallida ombra di un capolavoro. Nella sagrestia è custodita ancora la cornice originale coi brandelli di tela feriti dal coltello di quella banda di criminali che ha arrotolato Caravaggio dentro a un tappeto per portarselo via. C’erano solo due modi per ricordare questa tragedia: lasciare la cornice vuota o creare un equivalente che avesse una nuova energia».
Ha scelto l’equivalente.
«Non certo per innescare un confronto con il genio. Non sono così presuntuoso. Volevo un’immagine che, legandosi allo spazio del presbiterio, accentuasse il vuoto dell’assenza. Immerse in una luce accecante, le figure affiorano dal buio di Caravaggio e riacquistano la loro presenza assoluta. Ogni brandello è il relitto di una memoria cui rendere giustizia, salvandolo».
Un salvataggio che sembra un’epifania.
«Complice il bianco degli stucchi barocchi del Serpotta che fanno dell’oratorio un’opera d’arte totale, un progetto corale partito dall’emozione forte di un’opera che io, in un certo senso, ho cercato di restaurare, assecondando la sua forza autentica e il coraggio di chi, in passato, ha fatto con la pittura una rivoluzione».
In che modo?
«Caravaggio capovolse il mondo.
Sostituì la luce manierista del tardo Rinascimento con il nero più profondo. E riportò l’arte coi piedi per terra, aderente alla realtà con le sue madonne prostitute, che turbavano la chiesa ma non i cardinali illuminati. Cancellando i suoi neri, ho capovolto tutto anch’io, proprio per incidere dolorosamente su ciò che abbiamo perduto».
Lei ha sempre cancellato parole.
Ora è passato alle immagini?
«È una parte poco vista del mio lavoro che sto approfondendo. Lo farò anche con lo Sposalizio della Vergine di Raffaello da portare a Los Angeles.
È un nuova dimensione del cancellare che sottolinea gesti, volti, identità. Nei miei primi libri lo feci con Jackie Kennedy piegata sul corpo del marito durante l’attentato.
Tracciai una sola freccia nello spazio vuoto che esaltava tutto il peso di una figura sottratta».
A proposito di libri, la mostra continua a Villa Zito con un omaggio a Dante; che altro ha cancellato?
«Il De vulgari eloquentia. Dante fu un estimatore del siciliano, tanto da sostenere che la lingua più adatta alla composizione poetica fosse proprio il volgare illustre siciliano. Peccato che i copisti toscani dell’epoca toscanizzassero tutte le nostre liriche. Fu una prima forma di cancellatura in fondo».
Però Dante non approdò mai in Sicilia.
«Però sapeva tante cose di Federico di Svevia, di Costanza d’Altavilla, grazie ai suoi studi sul volgare siciliano intuì l’unità linguistica dell’Italia e presagì la cultura cosmopolita del Rinascimento. Chi vede oggi l’Italia divisa non ha letto abbastanza libri, altrimenti saprebbe che non è tempo per territorialismi e regionalismi.
Dante ci insegna come poesia e arte rappresentino la più alta forma di politica possibile; e io voglio pensare che l’arte abbia ancora la capacità di scuotere le coscienze».
Lei che ha cancellato la Costituzione, il debito pubblico e le leggi razziali, cosa cancellerebbe della politica oggi?
«La sua estetizzazione, le parole ad effetto; si parla per slogan, un linguaggio che conosco bene per via della mia formazione nei giornali. Ma credo che il linguaggio si debba riconnettere alla capacità di riflettere e di comprendere a che punto siamo della notte».
La cancellatura ha un valore politico?
«Sì, ma non confondiamo la mia opera con la moderna cancel culture che, a suon di politically correct, ci farà scordare anche di Romeo e Giulietta. Io cancello per rimarcare un problema, non per censurare, ma per fare emergere certe parole e il loro valore dimenticato».
Pensa che Caravaggio sia perso per sempre?
«Lo temo. Ma finché non sarà restituito continuiamo a parlarne con un monito battente e senza cedere alla rassegnazione. Quello che scompare ci interroga sulla sua perdita. I nostri spettri ci vengono a trovare. Così pure Caravaggio coi suoi santi. In attesa che torni – confesso – mi piacerebbe che la mia opera restasse sull’altare. Chissà».