Robinson, 5 febbraio 2022
Il velo sul lodo Moro
Non fu semplicemente un “lodo Moro”, come lo battezzò il presidente emerito Cossiga con malizia, scaricando sulle spalle del defunto statista democristiano la responsabilità ( e il biasimo) di un accordo segreto che, a partire dal 1973, garantiva libertà di movimento ad armi e terroristi palestinesi, per preservare il territorio nazionale dai loro attentati sempre più feroci, né fu semplicemente un affare di spie. La storica delle relazioni internazionali Valentine Lomellini, nel saggio Il lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986 (Laterza), sulla base di una ricca documentazione inedita da archivi italiani, britannici, francesi e statunitensi, conferma in modo inequivocabile l’esistenza dell’accordo, affiorata pubblicamente per la prima volta in prossimità della caduta del Muro, a partire da un’inchiesta del giudice Mastelloni su traffici d’armi tra Olp e Br; smantella, al tempo stesso, le troppe “leggende” che lo circondano, per consegnare al dibattito storiografico una pagina delicata della nostra vicenda nazionale, rimasta troppo a lungo impigliata nella polemica politica. La presunta decadenza del “lodo Moro”, infatti, è invocata da anni, soprattutto da destra, per attribuire la strage di Bologna al terrorismo palestinese, anziché ai Nar neofascisti condannati in via definitiva; nel fuoco di questa polemica, un magistrato bolognese è giunto a negare non solo l’esistenza, ma persino la possibilità del “lodo”.
Invece l’accordo ci fu e fu operativo a lungo, grossomodo tra la strage compiuta all’aeroporto di Fiumicino nel 1973 da terroristi votati alla causa palestinese e i primi anni Ottanta. In caso d’arresti e processi, garantiva in sostanza una via d’uscita ai terroristi, in particolare scarcerazioni in tempi relativamente rapidi, anche attraverso il coinvolgimento di magistrati “sensibili” alle esigenze dell’autorità politica (non a caso presso la procura di Roma). Non fu suggellato da un singolo documento, ovviamente: si trattò piuttosto di «un processo dinamico di negoziazione continua», scrive Lomellini, «che si adattò al mutare degli interlocutori coinvolti». Rispetto alle trattazioni precedenti ( ricordiamo l’interessante studio sulle fonti giudiziarie dello storico Giacomo Pacini), l’autrice allarga l’orizzonte e introduce significativi elementi di novità.
In primo luogo, Lomellini invita a ribattezzarlo “lodo Italia”. L’accordo, discutibile sotto il profilo etico, ma efficace sul piano della tutela della sicurezza del territorio e degli interessi nazionali, fu infatti una questione gestita ai livelli più alti della politica; i servizi segreti operarono in funzione di una strategia che dal 1973 è condivisa e sostenuta ai massimi livelli di governo, non solo da Moro, ma da leader del calibro di Rumor, Andreotti e Craxi, ovvero dai protagonisti che si alternarono alla Farnesina e a Palazzo Chigi. Le tracce documentali confermano il coinvolgimento del Quirinale di Giovanni Leone in passaggi particolarmente delicati. Secondo, l’autrice ricontestualizza il lodo nello scenario europeo e globale, mostrando che non fu un unicum o una bizzarra anomalia italica, bensì maturò in un quadro in cui, visto che la presenza di detenuti per terrorismo sul proprio suolo esponeva al rischio di attentati, le autorità europee concordavano sul fatto che il modo più semplice di prevenirli fosse «consentire ai terroristi la fuga, accettare la loro liberazione e lo scambio con gli ostaggi». La Francia stipulò un accordo analogo; l’Austria acconsentì alla consegna di terroristi devoti alla causa palestinese a Paesi ritenuti compiacenti, i cosiddetti “santuari”. Viste le rivalità e lotte interne che dilaniavano il fronte palestinese, questi ultimi assumono un ruolo cruciale in vista dell’obiettivo di tutelare davvero il territorio nazionale: per tenere a bada le frange più estremiste, occorreva agire su chi offriva loro sostegno e protezione.
Il terzo elemento di originalità del saggio sta proprio nell’inserire il “lodo” nel quadro dei rapporti e degli accordi che l’Italia ( con il fondamentale contributo di Moro, da ministro degli Esteri, ma, anche in questo caso, nel segno della continuità) stringe con la Libia di Gheddafi e l’Iraq di Saddam, i principali protettori del terrorismo palestinese. Accordi che l’Italia persegue per far fronte, innanzitutto, alla crisi economica ed energetica, ma che rientrano in una politica estera filoaraba di lungo corso ( con qualche increspatura nella breve parentesi di governo del filoisraeliano Spadolini), tramite cui la nostra classe dirigente vuole promuovere distensione e stabilità nell’area mediterranea, «garantire la sicurezza dello Stato sotto molteplici profili» e consentire a Roma di «svolgere il ruolo di mediatore con gli Stati Uniti». Tra i prezzi da pagare, un sostanziale silenzio sulle collusioni col terrorismo internazionale, nonché sulle uccisioni mirate di dissidenti libici sul suolo italiano: una sorta di “lodo libico”, accanto a quello palestinese. Simili negoziazioni si estendono poi all’Iraq e alla Siria, seguendo l’evoluzione della minaccia terroristica. Sottraendo il “lodo Moro” alle polemiche strumentali, il saggio di Lomellini ci riporta al suo cuore tragico: i feroci dilemmi della ragion di Stato e il modo in cui al suo altare si sacrifichino spesso sacrosante istanze di giustizia. Gli attori cambiano, ma il tema resta purtroppo di stringente attualità.