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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Byung-chul Han


Il filosofo tedesco di origini sudcoreane Byung-chul Han torna a diradare le nebbie dello stordimento contemporaneo con Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi Stile libero, traduzione di Simone Aglan-Buttazzi). Con la limpidezza di una prosa profonda che non perde mai la caratteristica precisione, Han smonta pezzo per pezzo l’illusione del presente e la liquefazione del mondo tangibile nelle non cose del digitale, evidenziando il cambiamento del nostro rapporto con il possesso, sostituito dall’accesso a informazioni che ci deformano. Tra smartphone e selfie, ci abbandoniamo a un’intelligenza artificiale che può far ben poco per noi. L’unica salvezza è ritrovare l’Altro e la strada della contemplazione, nel silenzio della beatitudine.
La digitalizzazione “disincarna il mondo”, bandendo i nostri ricordi.
Chi difende la vita digitalizzata sostiene che la memoria si è trasferita nei server, dov’è facilmente consultabile. Perché lei non sposa questa visione post-umana?
«L’approccio post-umano si fonda su un errore. La memoria non è costituita dall’immagazzinamento di dati e informazioni. Tramite i ricordi ci raccontiamo una storia. La memoria non è additiva, bensì narrativa. Tale narratività distingue la memoria dai medium digitali di immagazzinamento, che operano solo in chiave additiva. Le tracce mnemoniche sono costantemente sottoposte a un processo di riordino e trascrizione. S’intrecciano in maniera nuova, riferendosi le une alle altre.
Così ci raccontiamo ogni volta una storia diversa. La memoria è un tessuto narrativo. Le tracce mnemoniche sono vive, il dispositivo che salva i dati è morto. I dati immagazzinati restano sempre uguali a sé stessi. Sono morti. Le informazioni rendono ogni cosa trasparente. Ma solo ciò che è morto è trasparente. Le cose vive non si lasciano trasformare in dati e informazioni. Ecco perché anche Nietzsche eleva l’ignoranza a nucleo primario della vita. Non basta intuire che l’essere umano e l’animale vivono nell’ignoranza: dobbiamo anche riscoprire la volontà di non sapere, imparando a tollerare tale mancanza di trasparenza. L’ignoranza è quindi la precondizione affinché prosperi ciò che è vivo. I post-umanisti non sanno cos’è la vita».
Nell’infosfera siamo tutti infomani e datasexuals: feticisti di informazioni che non comprendiamo, cullati dagli smartphone in una beata stupidità.
In che modo le informazioni deformano la verità?
«Non bastano le informazioni a spiegare il mondo. Oggi siamo ben informati, eppure ci manca il senso dell’orientamento. Ci approcciamo alle informazioni col sospetto che le cose possano anche stare diversamente. L’informazione si accompagna a una sfiducia di fondo.
In questo si distingue dalla verità. Più veniamo messi dinanzi a svariate informazioni, più la sfiducia cresce.
Da un determinato punto critico in poi, l’informazione cessa di essere informativa e diventa disinformante.
Quest’esperienza della contingenza è un tratto essenziale dell’informazione. Ecco perché le fake news costituiscono una componente necessaria della società dell’informazione. Rientrano nel medesimo ordine. Inizialmente, le fake news sono informazioni come le altre. La società dell’informazione è una società del sospetto.
L’informazione non rientra nell’ordine dell’essere, bensì in quello della contingenza. La verità rivela una struttura molto diversa da quella dell’informazione. La funzione della verità consiste nel ridurre la casualità della contingenza. A ben vedere, la verità è una narrazione. Le informazioni non si addensano mai in una narrazione. La verità, al contrario dell’informazione, ci fornisce appiglio e orientamento. Le informazioni conducono a una crisi narrativa, a un vuoto di senso. I dati e le informazioni, da soli, non spiegano nulla. Proprio in quest’ambito fioriscono le teorie del complotto che offrono una spiegazione semplice, contrapposta all’esperienza della contingenza. Esse semplificano il mondo riducendo complessità e contingenza».
La digitalizzazione ci fa perdere la capacità di contemplare “che potrebbe essere la ricetta della felicità”. Come si può invertire questa tendenza?
«Le informazioni possiedono un margine di attualità risicatissimo. Si fondano sul brivido della sorpresa. In tal modo, ci precipitano nel turbine dell’attualità. Impossibile indugiare presso le informazioni. Ne prendiamo atto solo per poco, dopodiché il loro status ontologico si azzera, come messaggi della segreteria telefonica già ascoltati. “Le non cose” indica le vie attraverso cui potremmo approdare a un indugio contemplativo. Dovremmo riscoprire il silenzio e la sua magia, che è la chiave della felicità».
Dal lavoro fatto con le mani a quello con le dita sugli schermi si perde anche la visione hegeliana dello spirito come lavoro. La società ludica del “phono sapiens” a che tipo di realtà “post-storia” ci può portare?
«Il phono sapiens senza mani non agisce, digita soltanto. Certo, è affascinante l’idea che questo uomo del futuro si limiti a giocare, a godersela senza lavorare. Ma sarebbe davvero una condizione ideale?
“L’ultimo uomo” di cui parla Nietzsche anticipa già il phono sapiens, e non è felice. Diventa un drogato come dice in Così parlò Zarathustra: “Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine, per morire gradevolmente”. Per Heidegger, il “cruccio” sta alla base dell’esistenza umana. Il phono sapiens, del tutto privo di crucci, non è più un uomo.
L’uomo ha la Storia perché soffre».
L’impianto dello smartphone (o “pornophone”) depaupera la vista del “proprio lato magico”. In che modo la scomparsa delle cose ci sta accecando, distruggendo la nostra empatia?
«Lo smartphone rende ogni cosa immediatamente disponibile e consumabile. In tal modo distrugge l’Altro, che si sottrae a qualsiasi disponibilità. La perdita dell’empatia deriva dal fatto che noi facciamo dell’Altro, del tu, un oggetto consumabile. Insieme allo smartphone ci ritiriamo in una bolla narcisistica che ci protegge dalle imponderabilità dell’Altro. La scomparsa dell’Altro è proprio il motivo ontologico per cui lo smartphone ci rende soli».
Il comunismo opprime la libertà, il capitalismo neoliberista del “mi piace” la sfrutta. Qual è l’alternativa che lei auspica?
«Il regime neoliberista non è repressivo, bensì seduttivo e permissivo: sfrutta la libertà invece di opprimerla. Ci sfruttiamo da soli, e appassionatamente, credendo di realizzarci. È un regime che si fonda sul “like”. Il like è un amen digitale e lo smartphone è l’oggetto devozionale del regime neoliberista. È un rosario digitale. In opposizione a questo, nel nuovo libro tratteggio una politica dell’inazione e presento le forme dell’inattività quali fulgidi esempi di esistenza umana».