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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Renato Brunetta


Tornato a Palazzo Vidoni, sede del Dipartimento della Funzione pubblica, Renato Brunetta scorre nella sua mente le immagini del giuramento del presidente Mattarella. «Abbiamo davanti gli anni che cambieranno l’Italia e l’Europa, il programma del Recovery e i valori delle tre culture politiche che hanno costruito la democrazia italiana ed europea: popolare, liberale e socialista.
Quelle che la coppia Mattarella-Draghi incarna».
Il capo dello Stato ha usato un linguaggio e un “vocabolario dei diritti” nuovo ma anche antichissimo. Con i suoi toni pacati, è stato comunque sferzante verso la politica…
«Io in aula ero seduto ai banchi del governo e lo avevo alle spalle. Posso dire? Mi sono emozionato. Nelle sue parole ho ritrovato i miei sogni di vecchio socialista, di uomo di governo, del cittadino Renato».
Ma c’era anche un lungo elenco di diritti negati, per uno che sta al governo dovrebbe suonare forte il rimprovero, o no?
«Nella mia mente, ogni volta che il Presidente pronunciava la parola “dignità”, riandavo al Piano nazionale di ripresa e resilienza e dicevo dentro di me: questo c’è, questo c’è, questo lo abbiamo previsto. Sono consapevole della nostra responsabilità: insieme a tutti i miei colleghi di governo e a Draghi, però, stavolta questi sogni li possiamo realizzare. E, mi creda, è il pensiero e la volontà di tutti».
Un anno fa lei parlava di un “momento magico”, di una “congiuntura astrale” che aveva consentito la nascita del governo Draghi e l’approvazione del Pnrr.
Ma a un anno esatto di distanza dall’insediamento dell’esecutivo, per usare una battuta, la maggioranza sembra piuttosto…disunita. Basta vedere cosa ha fatto la Lega all’ultimo Consiglio dei ministri. Non è così?
«Non darei troppa importanza a una dissociazione su un tema specifico. Però, è vero, abbiamo subìto la fatica del governare: dopo l’estate l’abbrivio che avevamo preso è andato rallentando. Si andava esaurendo “l’innamoramento” da “stato nascente”, erano i mesi duri dei green pass, dei no vax, poi la fatica della legge di Bilancio e infine Omicron. Non ci siamo fatti mancare nulla, non ci è stato risparmiato nulla. Ma il momento magico è tornato quando è stato rieletto Mattarella. L’ho risentito forte esattamente come un anno fa. Il Parlamento, come un organismo vivo e autonomo dai partiti, ha fiutato il pericolo e si è affidato di nuovo alla diade vincente Mattarella-Draghi».
La maggioranza, tuttavia, andrà incontro a diverse prove divisive: le amministrative, poi i referendum, infine le politiche. Il governo reggerà o salterà in aria e con esso anche il Pnrr?
«L’Italia ha un “contratto” con l’Europa, da cui nessuno potrà prescindere nei prossimi cinque anni, a meno di voler rischiare di perdere quasi 200 miliardi di euro. Ma, accanto ai pilastri della ricostruzione che dobbiamo preservare, ovvero il Next Generation Eu e il Pnrr, c’è una grande variabile: non abbiamo ancora una formula di governo, perché l’unità nazionale è, ovviamente, uno schema solo transitorio ed emergenziale».
Dunque come se ne esce?
«Con la buona politica.
Nell’intervista al vostro giornale, il 22 ottobre, avevo lanciato un appello alle donne e agli uomini di buona volontà, ai “liberi e forti” di sturziana memoria. Chiedevo proprio di tornare ai fondamentali, alle grandi famiglie politiche che hanno costruito l’Europa e le sue istituzioni nel dopoguerra: la famiglia dei popolari, quella liberale e quella socialista.
Individuavo in queste culture politiche la chiave per ricostruire l’Italia del futuro. Con Draghi».
I membri di queste famiglie attualmente sono sparpagliati tra le due coalizioni. Ma finché c’è il maggioritario le alleanze sono obbligate. O sbaglio?
«Corretto. Nelle democrazie mature regolate dal maggioritario, due visioni alternative convergono al centro e isolano le tendenze estremizzanti. In Italia, invece, in ragione della sua democrazia ancora non compiuta, il maggioritario ha prodotto l’effetto opposto: ha radicalizzato l’offerta politica e ha lasciato il centro senza voce. Il bipolarismo “bastardo” all’italiana, figlio cioè della volontà di vincere le elezioni, ma non in grado di assicurare la governabilità, ha ammutolito e messo in sonno le culture liberali, popolari, riformiste. Bisogna svegliarle e ridar loro voce».
Forza Italia dove dovrebbe stare?
«Forza Italia nacque raccogliendo l’eredità composita di quel blocco democratico-cristiano, socialista, repubblicano e liberale, che passò alla storia con il nome di “centrosinistra”. Forza Italia ha vinto fin quando ha mantenuto questi suoi tratti inclusivi, centristi, riformisti e moderati, svolgendo il ruolo di partito federatore del centro-destra. Forza Italia ha perso, al contrario, leadership e consensi, quando ha assunto posizioni appiattite sulla “destra-destra”, rappresentata dal 2018 in poi dal sovranismo della Lega di Matteo Salvini e dal nazionalismo di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. E siamo passati dal 35 al 5 per cento».
Il centrodestra per come lo conosciamo è finito?
«La coalizione recente di centrodestra, ultima figlia del bipolarismo “bastardo” e di quello stare “o di qua o di là”, sembra non esistere più. Il mio sogno è tornare alla geniale intuizione di Berlusconi, quello di riunire tutte e tre le culture politiche italiane che guardano all’Europa. Tre filoni che hanno in Mattarella e in Draghi, che a quelle famiglie appartengono, i migliori interpreti e garanti. Con l’azione politica, l’ethos e il cuore. Ethos e cuore fondamentali che mi hanno sconvolto, sentendo le straordinarie parole, non una fuori posto, ai funerali di David Sassoli».
E in vista delle Politiche del 2023 quali assetti da costruire?
«La squadra vincente Mattarella-Draghi in vista del 2023 e oltre. Ma per farlo bisogna tornare a parlare delle persone. Dei meriti e dei bisogni. Io alla conferenza programmatica socialista di Rimini del 1982 c’ero, so da che parte stare.
Vuol dire rimettere la sfida del merito al centro dell’agenda politica: il merito sta nel Pnrr, nella riforma della scuola e della magistratura. La sinistra non deve aver paura del merito, perché il merito non è un privilegio, ma la fonte della responsabilità solidale che la classe dirigente assume nei confronti della società. Serve, lo ripeto, una grande alleanza riformista tra chi rappresenta i meriti e chi rappresenta i bisogni».
Si torna al proporzionale, allora?
«Bisogna avere il coraggio di dire basta al “bipolarismo bastardo”, opportunista e fonte di instabilità, e avviare un dibattito per tornare a un sistema elettorale di tipo proporzionale, serio e corretto verso la governabilità. Non per fare gli aghi, ma per fare la bilancia. Lo dico soprattutto al mio partito, Forza Italia».
In questo disegno Draghi che ruolo deve svolgere?
«Draghi ha davanti a sé un’occasione mai vista: quella di rappresentare sempre più il riferimento di una sensibilità politica che non si identifica nella contrapposizione tra destra e sinistra. Il governo deve estendere il raggio della sua azione riformatrice e sfidare i poteri di interdizione di chi vuole fermare il cambiamento. Questo ci ha chiesto il presidente Mattarella. Con il Parlamento tutto in piedi a dirgli di sì».