Tuttolibri, 5 febbraio 2022
Riscoprire Drieu La Rochelle
Nella Parigi occupata dai tedeschi, la primavera era arrivata e per la prima volta Pierre Drieu La Rochelle scriveva con la finestra aperta. Nel 1944 era sempre più indifferente alla guerra. «Non desidero più neanche morire, sono morto da un pezzo, da quando mi sono accorto dell’inadeguatezza dei tedeschi». Lui, che aveva sempre detestato le droghe, si perdeva nella lettura, l’unico stupefacente che gli permetteva di astrarsi dalla disastrosa situazione in cui il fascismo aveva portato la Francia. Un anno prima aveva dovuto rinunciare bruscamente al suo distacco dalla realtà per fare liberare la sua prima moglie, un’ebrea, arrestata con i due figli dai nazisti. Per riuscirci aveva dovuto supplicare personaggi che disprezzava, mentre si chiedeva se non fosse vera la voce che girava: l’ex-moglie si sarebbe fatta arrestare solo per richiamare l’attenzione di Drieu.
Non era l’unica volta in cui quello strano collaborazionista, così legato all’Inghilterra, era intervenuto per salvare dei perseguitati. Il suo antisemitismo non gli aveva mai vietato varie amanti e due grandi amici ebrei. Non si rivolgeva a un popolo ma a una fantomatica cospirazione in grado di dominare persino l’Urss. Prima della guerra gli amici lo prendevano in giro sulle sue strampalate teorie, sui dolicocefali biondi e i brachicefali bruni: «La prossima volta che ci parli di brachicefali, ti spacchiamo la testa».
Scriveva «con indolenza» una specie di novella, Intermezzo romano. Per quei tardivi miracoli, che segnano talvolta gli ultimi anni di uno scrittore, queste pagine, ben curate da Marco Settimini, sono di una rara perfezione. Non si trattava però di un’invenzione, ma di «un racconto esatto, senza omissioni: memoria pura». Voltandosi indietro, Drieu era stupito di trovarsi così diverso dal dandy del 1925, inquieto e scontento, sempre alla ricerca di nuove prede. «Forse, vedendo soltanto più i gesti, vedo soltanto la frivolezza». La sua misoginia era pari solo al suo smisurato bisogno di amore.
Quando aveva incontrato una statuaria principessa, Cora Caetani, qui trasformata in una contessa ungherese, era reduce dalla più grande delusione amorosa della sua vita: l’americana con cui sperava di iniziare un nuovo capitolo si era ritratta all’ultimo. Pur trovandola troppo bella e quindi inaccessibile, era stato colpito dalla «scollatura immensa, vertiginosa» della principessa. In effetti stava già venendo meno alla sua decisione di amare solo le donne brutte. Malgrado tutte le teorie sulla sua omosessualità repressa, Drieu adorava il corpo femminile. «Dio, quanto ho amato i seni delle donne nel corso della mia vita, che culto estenuante e insaziabile gli ho votato! Oggetti meravigliosi sui quali non si ha mai il tempo di soffermarsi abbastanza a lungo per via della fretta del desiderio, di quella semi indifferenza che ne consegue e che mantiene nel torpore del proprio soddisfacimento».
Il giorno dopo l’aveva trovata in albergo coperta solo da una lieve vestaglia, ma lo squillo del telefono, eco di un’affollata mondanità, l’aveva fatto battere in ritirata. Nella sua garçonnière si era spogliata «con quella semplicità che avevo già notato e che era semplicemente perfetta», senza degnare di uno sguardo i rari oggetti della casa. L’indifferenza di quella dea, la rapidità con cui gli aveva offerto quel corpo «patinato» avevano urtato il suo culto della lentezza. «Evitavo il denaro, la fama, persino il lavoro, per essere lento». Era riuscito a possederla solo nel fastoso albergo di campagna in cui lei l’aveva portato, dopo avere ascoltato la tumultuosa storia della sua vita amorosa. Era iniziata così una lunga avventura che gli aveva fatto seguire quella languida aristocratica fino al suo palazzo romano.
Per pagarsi il viaggio, Drieu aveva dovuto vendere anche la sua scassata automobile. Malgrado la sua diffidenza verso il fascino decadente delle rovine, era stato «estremamente sedotto da Roma… mi è parsa un luogo d’eleganza quasi quanto Firenze e più di Venezia. Là c’è qualcosa che resiste, una pietra troppo bella e forte, una presenza irriducibile. E che importa l’umanità che circola tra le pietre. L’Italia, la Grecia e la Francia non hanno più bisogno degli italiani, dei greci e dei francesi per vivere; vivono in cielo e in poche rovine immarcescibili». Tutto preso dalla sua storia, era rimasto indifferente a Mussolini e al fascismo che in seguito avrebbe stravolto la sua tormentata esistenza.
Alla vicenda con la languida contessa faceva da contrappunto quella più lieve con una giovane e facoltosa ebrea, Marianne, probabilmente ispirata a Liliane Roditi. In lei Drieu apprezzava la possibilità di una vita nuova, sana e regolata. Inoltre, era sempre stato attratto dalla ricchezza delle donne, in cui cercava oscuramente un elemento protettivo materno. Naturalmente tutto ciò non sarebbe bastato a distoglierlo prima dalla contessa e poi dalla solitudine che amava «in modo selvaggio». Dietro questo insoddisfacente gioco di specchi si celava l’irresistibile attrazione che esercitavano su di lui le prostitute. Solo con loro si sentiva davvero a suo agio superando gli ostacoli creati senza sosta dalla sua sensibilità. Anche perché, sosteneva, una signora mondana può avere i difetti di una puttana senza averne i vantaggi.
Ma in quell’ultimo anno di guerra era troppo tardi per tutto: «È un’ottima cosa per uno scrittore morire a cinquant’anni: gli evita di morire a settanta, cioè troppo tardi». Ormai il passato aveva invaso un presente irrimediabilmente deludente. Al momento della sconfitta, non aveva cercato di fuggire all’estero, come Céline. Pensava di meritare la morte, ma aveva preferito suicidarsi «per non lasciarsi toccare da mani sporche». Nelle sue ultime pagine, lucidamente disperate, intrise di esoterismo e di lutto, si era rivolto ai rappresentanti della resistenza: «Siate fedeli all’orgoglio della resistenza, come io sono fedele a quello della Collaborazione. Non barate, come non baro io. Condannatemi a morte». La cuoca lo trovò morto in cucina, accanto al veleno e al tubo del gas staccato, il 16 marzo 1945. Dopo nemmeno due mesi la Francia avrebbe festeggiato la liberazione. —