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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Gábor T. Szántó


Gábor T. Szántó ha un’ossessione per le cose piccole, quelle che si perdono negli angoli delle case e nei cassetti. Ha anche un’ossessione per i diversi. Qualsiasi cosa significhi esserlo. L’urgenza che lo accompagna da tutta la vita è riempire gli spazi vuoti, colmare i silenzi, «raccontare le storie delle cose piccole», che nelle pagine diventano archetipi.
La sua casa, a Budapest, è colma di libri, appunti, fogli e vecchi giornali, il campo di battaglia in cui combatte la sua personale maieutica storica, la sua battaglia contro i silenzi. Quando sorride, e sorride spesso, gli occhi si fanno tristi. Quando racconta dell’orrore dell’Olocausto, la sua voce è colma di speranza. Gábor T. Szántó contiene moltitudini, è qui e ora, ma anche altrove e ben più lontano dei suoi 56 anni. Scrittore, sceneggiatore, poeta, saggista e caporedattore del mensile ebraico ungherese Szombat, Szántó, ha deciso di infrangere quel patto dell’oblio che sembra congelare tutti i sopravvissuti della Shoah, specialmente quelli d’Europa centrale, e per questo è stato definito «l’ultimo scrittore ebreo ungherese».
Perché viene chiamato così?
«È una metafora che ho usato dieci anni fa ed è diventata uno slogan. A quel tempo nessuno della mia generazione rifletteva sulla questione ebraica, se non da un punto di vista teorico, io sono rimasto l’unico ungherese in cui l’essere ebreo si riflette costantemente nei libri che scrivo».
I protagonisti delle sue storie rappresentano sempre una minoranza, che sia religiosa, sociale, di orientamento sessuale. Perché?
«Quando scrivevo 1945 mi sono reso conto che il tema vero era la Storia non raccontata, e ho sentito che dovevo assolutamente raccontarla io, dovevo raccontare quello che successe dopo l’Olocausto, le storie degli ebrei centroeuropei. Sono storie mai raccontate a causa della delicatezza del tema, del senso di colpa della società, del silenzio dei sopravvissuti. Sentivo lo spazio vuoto e volevo riempirlo. Per questo ho scritto 1945. Le altre storie sono state scritte nell’arco di un decennio, e quando le ho messe insieme mi sono reso conto che avevano tutte un punto in comune: erano scritte dal punto di vista di una minoranza, etnica, esistenziale».
Quali sono state le sue fonti?
«Vengo da una famiglia di sopravvissuti, i miei genitori e mia nonna sono sopravvissuti alla Shoah, mentre entrambi i miei nonni sono morti nei territori sovietici. Erano stati deportati nel battaglione di lavoro forzato dell’esercito ungherese. Ho iniziato dai racconti della mia famiglia».
Le storie private delle minoranze diventano storie universali?
«Esatto, è proprio quello che ho voluto fare. I traumi dell’Olocausto e di quello che venne dopo sono radicati nella mia famiglia. Inoltre, come ungheresi, abbiamo vissuto sotto il comunismo, ne abbiamo assaggiato il regime. Da bambino di seconda generazione ho vissuto tutti questi traumi circondato da un atteggiamento iperprotettivo da parte della mia famiglia, dai silenzi, dalla paura. Mi sono sentito come separato dalla società, come un elemento estraneo. Ho sentito sulla mia pelle l’appartenenza a una minoranza. Farne parte è sgradevole, difficile, ma è anche uno strumento per vedere in modo più oggettivo, dall’esterno, uno strumento importantissimo per uno scrittore. Il filo che tiene insieme questo libro è proprio questo, la prospettiva delle minoranze. Di solito, la politica le usa, sfrutta la sofferenza per fini altri, io le ho usate per mostrare il quadro generale, ho raccontato le sofferenze degli europei e dei centroeuropei per mostrare il quadro generale. Nella raccolta 1945 si vedono gli ultimi 70 anni di Europa».
Attraverso le persone “piccole” vuole raccontare i grandi eventi della Storia?
«Sì, almeno ci provo. Cerco di mostrare attraverso i piccoli fatti le prospettive dimenticate e mai raccontate. Conosciamo a memoria la Grande Storia, quella dei leader politici e militari, quella degli Stati, io ho voluto raccontarla da una prospettiva diversa, quella di chi soffre».
Parliamo di antisemitismo, e di quel particolare fenomeno che trasforma la colpa in odio e rabbia, un tema ricorrente nei suoi racconti.
«È una reazione che abbiamo visto nell’Europa centrale dopo l’Olocausto. Quando i sopravvissuti tornarono a casa ci fu una seconda ondata di antisemitismo causato dal senso di colpa di coloro che si erano impossessati delle case degli ebrei. Quando lo Stato distribuì le proprietà degli ebrei deportati ai suoi cittadini, li rese parte di questa colpa. Molti pensarono: se lo Stato ci dà queste proprietà allora le possiamo accettare. Ma dopo, quando i sopravvissuti tornarono a casa, furono costretti a confrontarsi con loro, e con il senso di colpa. Questa colpa si trasformò in rabbia, e causò una seconda ondata di antisemitismo. C’è anche stata, naturalmente, un’ondata di rabbia da parte degli ebrei ritornati a una casa che gli era stata strappata ingiustamente. Ma fu un’emozione che sentivano di dovere controllare, di dover tenere dentro, era il sentimento di una minoranza contro la maggioranza della società».
In Ungheria il sentimento anti-ebraico è più alto che altrove?
«C’è uno studio uscito due mesi fa di un sociologo ungherese che ha messo a confronto 16 Paesi Ue. L’antisemitismo è ovunque, ma nell’Europa dell’Est è più forte. In Grecia, Polonia, Romania e Ungheria è più presente, ed è un fenomeno in costante cambiamento, le forme in cui si esprime prendono strade diverse. Per esempio nell’Europa occidentale è più forte il sentimento anti-Israele in contrapposizione a quello pro-Palestina».
Le minoranze nell’Ungheria contemporanea non vivono un momento facile, non crede?
«Non lo è mai, e non solo in Ungheria. Nei miei racconti scrivo di esperienze che ho vissuto, direttamente o indirettamente. Ma molte di queste esperienze sono simili oggi come in altri tempi. Per esempio, la storia di Adam, studente rabbinico transessuale – una doppia minoranza -, tratta un problema molto contemporaneo nell’Europa centrale e in Ungheria, come sapete».
Demagogia e populismo crescono dappertutto, l’Ungheria di Orbán ne è un esempio lampante. Crede che il Paese stia cambiando?
«La complessità si vede nella cultura ungherese, nella sua letteratura. I politici non rappresentano un Paese, se non da un punto di vista legale e ufficiale, ma un Paese non si esaurisce nei suoi politici, che semplificano analisi, problemi e soluzioni. Il mondo è più complesso. Per questo è importante che la letteratura usi la storia come un bastone da dare in testa alla semplificazione».
Un tema ricorrente nei suoi racconti è il silenzio, è vero?
«La mancanza di conoscenza, di racconto, di trasmissione è una fonte di ispirazione centrale nelle mie storie perché è un fenomeno tipico dell’Europa centrale. Le passate generazioni sopravvissute alla guerra e all’Olocausto non hanno raccontato le loro storie, almeno non abbastanza. Sono state nascoste in un cassetto, con tutti i loro traumi, e coperte dal silenzio».
Perché?
«Credo sia per la vergogna, la paura, il senso di smarrimento. Raccontare i traumi, qualsiasi essi siano, non è facile. Ma questa mancanza di racconti, e quindi di conoscenza, ha creato una energia distruttiva, ha lasciato alle nuove generazioni domande senza risposta e un’instabilità identitaria profonda, specialmente nell’Europa centrale, dove la Seconda Guerra mondiale e la dittatura comunista hanno avuto un impatto fortissimo. È anche di questo che parlano le mie storie, degli effetti della guerra e dei regimi sulle persone».
Quali sono le sue fonti di ispirazione?
«Se non contiamo i testimoni, sono soprattutto scrittori come Péter Nádas, Imre Kertész e sicuramente gli scrittori ebrei americani Isaac B. Singer, Bernard Malamud, Philip Roth. Quest’ultimo ha aperto le finestre, ha fatto entrare aria fresca nella letteratura. Nell’Europa dell’Est c’era tutta questa paura, tutto questo silenzio, milioni di tabù, lui mi ha aiutato a trovare la mia ebraicità, la mia storia, le mie esperienze dell’infanzia. Mi ha dato lo spazio in cui parlare di queste cose. È significativo che siano stati scrittori americani ad averlo fatto, dove le minoranze parlano a voce alta, sono più forti».
Torna il silenzio. Perché c’è questo clima così cupo e chiuso nella società esteuropea?
«Le società dell’Europa meridionale, come quella italiana, sono più aperte, rumorose e coraggiose, sanno combattere ed esprimersi. Negli Stati Uniti le minoranze hanno più spazio perché sono tantissime, sono un fenomeno più naturale e intrinseco già dagli Anni 50. L’Est Europa paga la tradizione della dittatura. Ogni identità è stata messa in un cassetto, sotto il tappeto, tutto è stato omogeneizzato dalla cultura comunista. Ma il cambiamento, almeno spero, è in atto».