Tuttolibri, 5 febbraio 2022
Intervista a Felicia Kingsley
Il primo romanzo l’ha digitato ai tempi del liceo in forma di fanfiction. A 34 anni, oggi, è diventata la più promettente autrice di romanzi rosa, anche se l’etichetta editoriale per le sue commedie di donne «anfibie, con il cuore che se ne sta a metà tra i piedi ben piantati per terra e la testa tra le nuvole» va un po’ stretta. Nel 2016 si è autopubblicata Matrimonio di convenienza; è stata notata e arruolata da Newton Compton per la quale ha scritto otto romanzi, e due novelle, per quasi 600mila copie. Con il suo nome di piuma, Felicia Kingsley, viaggia in un mondo brillante di indomite fanciulle, passioni, glamour, dolce vita internazionale. Con quello vero, Serena, vive a Modena, fa l’architetta, ha un figlioletto di un anno nato insieme a Bugiarde si diventa («ho chiuso l’editing con le doglie»), un compagno che non legge i suoi romanzi («preferisce i manuali tecnici»), e una fervida attività social.
Che tipo di donne racconta?
«Romantiche pragmatiche. Con un carattere forte, un cuore capace di battere, una mente che vuole sognare. I miei personaggi affrontano le fatiche di un mondo ancora poco friendly verso il lavoro femminile, madri single, insegnanti precarie a vita, libere professioniste senza orari. Un padre che non riconosce i propri figli è un assente giustificato, ma se una madre serve ai bambini un sofficino riscaldato per cena, dopo quattordici ore di lavoro, perché non è riuscita a fare la spesa, va denunciata ai servizi sociali».
Il protagonista si chiama D’Arcy: a parte l’apostrofo non ci sono dubbi sull’omaggio …
«Non è un paese per single è un retelling di Orgoglio e pregiudizio. Ho voluto divertirmi trasportando il classico della Austen in Italia e nel ventunesimo secolo. Svelo un segreto, ma che resti tra noi: gli scrittori adorano i retelling, basti pensare a Madeleine Miller, da mesi in testa alle classifiche…»
Immagino sia uno dei suoi romanzi preferiti..
«È la mia medicina letteraria. Su di me ha addirittura un effetto taumaturgico. Quando mi viene l’influenza, lo rileggo, e mi fa subito stare bene. È uno straordinario affresco non solo dei sogni femminili, ma anche delle difficoltà che una donna nell’800 doveva affrontare: se non nasceva ricca o nobile, o faceva la cucitrice e l’istitutrice o si sposava».
D’Arcy è bello, ricco, un po’ stronzo, ma addomesticabile all’amore: è l’intramontabile identikit del principe azzurro nel nuovo millennio?
«Mi pare evidente che la mia protagonista non abbia bisogno di alcun principe azzurro, né dei suoi soldi, infatti lei alla fine sceglie per sé stessa e lo lascia. È lui che ha bisogno di lei. Le donne che racconto sognano l’amore ma vogliono anche essere le fabbre del proprio destino. Non sono disposte a compromessi, a rese, a vivere nell’ombra di un marito che le ricopre d’oro, se c’è in ballo la loro indipendenza. I soldi sono magnifici, ma nel 2020 non ci può stare che una donna adulta chieda la paghetta».
Ha ancora senso raccontare il matrimonio come lieto fine nell’era in cui tutti divorziano?
«Cambiamo prospettiva: ha senso, nei gialli, raccontare ancora di crimini che vengono risolti in uno schiocco di dita e l’assassino assicurato alla giustizia quando il 40% dei crimini rimane irrisolto, quando la durata media di un processo penale – contando i tre gradi di giudizio – è di sei anni? Ha senso scrivere di scenari di guerra dove il bene trionfa sul male quando ad agosto abbiamo tutti guardato gli aerei stipati di donne e bambini in fuga da Kabul dopo la presa dei Talebani? Se paragonato alla realtà, niente ha senso, ma è proprio per questo che si chiama fiction, altrimenti sarebbe realismo isterico. Triste giorno per la narrativa quando sarà necessario un disclaimer, nel frontespizio, per ricordare al lettore: “Quello che stai per leggere è una storia di fantasia, non farti alcuna aspettativa sulla vita reale"».
Lui ha avuto tante donne e vorrebbe essere il «primo» per lei, lei ha avuto pochi uomini e vorrebbe essere l’«ultima» per lui: lo schema della coppia nel “romance” continua a essere così graniticamente tradizionalista?
«Pecco di eccesso di fantasia in tante cose ma su questo, credo, di essere crudelmente fedele alla realtà».
Il #metoo ha cambiato regole, sogni, avventure del romanzo rosa?
«Mi sento di andare sul sicuro rispondendo assolutamente no. Le protagoniste dei romanzi rosa che ho letto, ben prima dell’avvento del #metoo, erano già indipendenti, determinate e pronte a non farsi mettere i piedi in testa da nessuno».
Abbiamo ancora bisogno di romanzi d’amore?
«Chiederebbe a Della Valle se abbiamo ancora bisogno di scarpe? Non so gli altri, ma io sì. E se mi si chiedesse perché, ruberei da Benigni: Innamoratevi. Se non vi innamorate è tutto morto. Vi dovete innamorare e diventa tutto vivo, si muove tutto».
Perché Londra ricorre nei suoi romanzi?
«È una città che ovviamente mi piace. Ma è anche la cornice ideale per un altrove ricco di possibilità. Cenerentola che perde la scarpetta a Fossoli alla festa dell’Unità non è credibile. Non saremmo nel romance, ma nella parodia. Ciò detto ho partecipato a decine di feste dell’Unità. Qui in Emilia sono un “fattore culturale"».
Come definirebbe i suoi romanzi?
«Non mi autodefinisco, prendo in prestito quello che le lettrici mi scrivono: sono terapeutici, accessibili, stimolanti e femministi. Terapeutici perché diverse persone mi hanno detto di avervi trovato conforto in un momento difficile (con la pandemia, più che mai); accessibili, perché la mia prosa non è respingente, precludendo la lettura a chi non ha minimo un master in filologia romanza; stimolanti perché, pur non facendo lectio magistralis, lascio tracce di cose che poi, chi legge, vuole approfondire (per esempio, so che diverse persone ora stano leggendo Orgoglio e pregiudizio, che prima non avevano mai pensato di iniziare) e femministi, non tanto per una mia particolare militanza, ma perché credo che una donna che si prende del tempo per sé da dedicare al suo piacere (in questo caso la lettura) è la cosa più femminista che può fare».
La sua Modena ha nel DNA un magnifico autore, maestro di ironia: Tassoni. C’è anche lui nella sua biblioteca?
«Per quanto riguarda l’ironia locale mi sento più affine a Giovannino Guareschi. Invece di Tassoni, in casa, ho solo la cedrata. Ma davvero ci sono scrittori della mia generazione che si dilettano di letture risalenti al 1600? Rilancio con Pietro Aretino e Giulio Romano: conservo gelosamente la copia di una ricostruzione de I Modi, che tra l’altro mi è servita nella struttura di un mio precedente romanzo.
Due sublimi maestri d’erotismo spinto: è più difficile descrivere un bacio o una scena di sesso?
«La difficoltà di scrivere scene di sesso non è il rapporto in sé, ma la build up. Bisogna portare il lettore ad avere una voglia matta d’infilarsi in quel letto. Se l’amplesso è descritto senza costruzione del desiderio, è come aprire un video su Pornhub».
"Non è un paese per single” abbonda di citazioni più o meno evidenti, la Kinsella, Stephen King, il “Ciclone” di Pieraccioni, una playlist musicale, e persino un sorprendente Pascoli…
«La sua poesia Novembre descrive alla perfezione il sentimento che mi suscita l’autunno. Il grigio terra, il fumo, il cielo che diventa bianco. Una gioia malinconica che porta a guardarmi dentro. È tutto sospeso. Come la saudade brasiliana, un sorriso che non vuole ridere e una lacrima che non vuole scendere».
C’è un cavallo che si chiama Soldatino…
«Insieme a King e D’Artagnan sono il terno ippico di Febbre da cavallo, il film di Steno, il mio cultmovie…»
E poi i Jalisse: i due protagonisti del romanzo volevano fare una cover band dei più negletti vincitori di Sanremo. Come le salta in mente?
«I Jalisse meritano giustizia».
Il menarca, il ciclo che arriva improvviso a fare il guastafeste... Perché le mestruazioni tornano nel romanzo con divertita spudoratezza?
«Se le mestruazioni le avessero gli uomini non si parlerebbe di altro tutto il tempo. Il ciclo è il fedele compagno delle donne per circa quarant’anni, è il metronomo del nostro stato di salute, il suo inizio è una specie di rito di passaggio, segna delle tappe di maturazione; il suo arrivo e il suo ritardo possono essere in entrambi i casi fonte di gioia o di preoccupazione. I miei personaggi femminili sono donne di oggi e, poiché escono dalla mia mano, non risentono degli stereotipi di genere. Il corpo femminile non è la versione imperfetta di quello maschile, no?»
Un protagonista non secondario è il vigneto: è appassionata di vini o di campagna?
«Mio nonno materno aveva una vigna, un podere piccolo, non certo sufficiente per una cantina e una sua produzione vitivinicola ma ha dato tutto sé stesso per “la terra”. La chiamava così, “la terra”. Le mie radici affondano lì, nel lavoro, nel sacrificio, nella pazienza; il benessere e le possibilità di cui godo oggi sono frutto di quella vigna, di gente che si è fatta dal niente – e con niente intendo niente per davvero».
Elisa è abituata a lavorare nelle vigne e a vivere nell’isolamento della tenuta sui colli, ma appena s’innamora vuole mettersi i tacchi e via dicendo: perché questa smania “di conformarsi a canoni estetici imposti dal patriarcato imperante”?
«La sua è una battuta, una frecciatina rivolta verso chi milita tra le fila del movimento anti trucco/anti tacchi/anti depilazione /anti parrucchiere perché simboli del patriarcato. Elisa è tosta ma anche femminile. Io stessa posso andare in cantiere con dei jeans coi tasconi, il caschetto, le scarpe antinfortunistiche a fare rilievi parlando in dialetto stretto ai muratori e poi, la sera uscire per un aperitivo con un paio di Louboutin con tacco a spillo, tubino Armani e capelli freschi di piega. Si può essere concrete e femminili senza dover scendere a compromessi».
Elisa c’est moi?
«C’è una briciolina di me in tutte le protagoniste. Nessuna è la mia fotocopia precisa. D’altronde non ho una vita così pazzesca per creare una moltitudine di personaggi diversi. Ma la cosa più autobiografica nei romanzi è che mangio per primi i biscotti rotti». —