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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Thierry Breton. Parla del piano Ue da 50 miliardi per i microchip


INVIATO A BRUXELLES
Quasi cinquanta miliardi di euro di fondi pubblici per finanziare progetti di ricerca e costruire in Europa “3-5 megafab” in cui produrre semiconduttori con le più avanzate tecnologie. Un allentamento delle regole sugli aiuti di Stato per consentire ai governi di finanziare le imprese che intendono incrementare la loro produzione in Europa, ma con una serie di condizioni e vincoli che daranno a Bruxelles il potere di bloccare l’export dei microchip e dei componenti necessari a produrli. Esattamente come è successo un anno fa con i vaccini, anche se questa volta tutto avverrà in un quadro strutturato. Thierry Breton sta lavorando per mettere a punto gli ultimi dettagli dello “European Chips Act”, il maxi-piano che punta a quadruplicare la produzione europea di semiconduttori, rendendo l’Ue indipendente e quindi meno soggetta alle conseguenze delle strozzature nelle catene di approvvigionamento che nei mesi scorsi hanno messo in ginocchio diverse industrie. Sarà presentato martedì e in questa intervista con La Stampa e altri media europei il commissario ne anticipa i punti-chiave.
Perché l’Ue ha bisogno di un “Chips Act”?
«Si tratta di un tema estremamente importante per l’Europa, per la nostra industria. Perché definisce la nostra posizione strategica nelle catene di approvvigionamento mondiale. I microchip sono il petrolio della nuova rivoluzione industriale. Senza, non sarebbe possibile fare la transizione digitale, né quella ecologica, né potremmo ambire a una leadership tecnologica. Per la prima volta facciamo evolvere le nostre regole sugli aiuti di Stato e per certi versi adattiamo anche la nostra politica commerciale. Un qualcosa di inedito nella storia della Commissione».
Anche la pandemia ha giocato un ruolo nella formulazione di questo provvedimento?
«Non possiamo ignorare il contesto generale. La scorsa primavera c’è stata una discussione molto forte all’interno del collegio dei commissari relativamente al posizionamento dell’Europa nel mondo. Finora siamo stati sempre considerati come un continente aperto. Continueremo a esserlo, ma è il momento di fissare delle condizioni. Lo abbiamo fatto per esempio per i vaccini. A un certo punto le case farmaceutiche in Europa si sono ritrovate senza ingredienti perché altri Paesi avevano imposto il blocco delle esportazioni dei componenti. È così che abbiamo iniziato a prendere contromisure, basandoci sul principio della reciprocità».
Vuol dire che la Commissione potrà bloccare anche l’export di semi-conduttori?
«Ci sarà uno strumento di reciprocità. Ovviamente il nostro obiettivo sarà sempre quello di scongiurare l’utilizzo di mezzi estremi, prediligendo il dialogo. Ma il dialogo andrà portato avanti da una posizione di forza».
Che oggi l’Europa non ha, visto che produce un decimo dei semiconduttori messi sul mercato globale...
«Abbiamo un obiettivo: raddoppiare la nostra quota di mercato entro il 2030, portandola al 20%. Questo vuol dire che la produzione non dovrà raddoppiare, bensì quadruplicare, dato che il valore del mercato globale raddoppierà nel giro di dieci anni. Puntiamo a sviluppare qui le nuove tecnologie di semiconduttori anche grazie al fatto che in Europa ci sono centri d’eccellenza nella ricerca. Sto parlando dell’Imec, qui in Belgio, che utilizza la tecnologia FinFet: è qui che vengono a formarsi le principali aziende mondiali, come Intel e Samsung. Oppure di Soitec, a Grenoble, che utilizza la tecnologia Fdsoi, più orientata al basso consumo di energia».
Dunque le attività di ricerca ci sono, ciò che manca sono le fabbriche: a cosa è dovuta questa carenza?
«Al fatto che a un certo punto si era sviluppata la moda dell’impresa senza fabbrica. Così sono state aperte fabbriche in Messico o a Shenzhen, il problema è che hanno creato degli ecosistemi locali. E questo ha fatto calare la nostra produzione: negli Anni 90 eravamo al 20% e oggi siamo al 10%. Oggi importiamo l’80% dei microchip dall’Asia e circa il 60% da Taiwan. Se Taiwan, per le più svariate ragioni, non dovesse essere più in grado di esportare semiconduttori, nel giro di tre settimane si bloccherebbe tutto. Le fabbriche automobilistiche, quelle che fanno i frigoriferi, quelle delle telecomunicazioni...».
Concretamente, cosa metterete sul piatto con il “Chips Act” europeo?
«Sarà basato su tre pilastri. Il primo riguarda la ricerca, nella quale investiremo 12 miliardi di euro di fondi pubblici. Sei dal bilancio europeo, altrettanti da quelli degli Stati. Serviranno per finanziare delle linee-pilota per fabbricare i componenti con le tecnologie all’avanguardia. Il secondo pilastro ci consentirà di aumentare la capacità produttiva e di costruire 3-5 “megafab” in Europa grazie a un adattamento delle regole sugli aiuti di Stato che permetterà ai governi di mobilitare risorse».
Di quanti soldi stiamo parlando?
«Di circa 30 miliardi. I Paesi li hanno già programmati nei rispettivi piani di ripresa, ma non sono stati ancora spesi. Il nostro atto speciale permetterà agli Stati di intervenire in aiuto delle imprese, anche quelle extra-europee, per costruire questi centri sul nostro territorio. Infine stiamo lavorando con la Bei a un fondo da 5 miliardi per sostenere gli investimenti delle start-up. Arriviamo così a 45-50 miliardi di euro. Gli Stati Uniti hanno investito 52 miliardi di dollari, dunque la portata del nostro intervento è paragonabile».
Sulla questione aiuti di Stato, però, la sua collega Margrethe Vestager non sembra d’accordo: c’è uno scontro all’interno della Commissione?
«Io mi rifaccio a quello che ha detto la nostra presidente Ursula von der Leyen. Cito testuale: “Adegueremo ulteriormente le nostre regole sugli aiuti di Stato sulla base di condizioni rigorose”. Le imprese che beneficeranno degli aiuti di Stato dovranno rispettarle, dando garanzie in termini di sicurezza di approvvigionamento e di gestione delle crisi. Durante le quali, in casi estremi, potremo attivare misure ispirate al “Dpa” americano (US Defense Production Act)». —