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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Prigionieri all’estero


Venezia
In un foglio, il volto e la barba folta tratteggiati con dei segni a matita, stretti dal filo spinato; a destra, la scritta «Marco Zennaro libero». In un altro foglio, i capelli e la barba nera, un paio di occhiali e poi sempre quel filo spinato; a sinistra, la scritta «Freedom for Patrick Zaki. Egypt». La firma è la stessa, quella del fumettista Gianluca Costantini. Con la sua mano, traccia un “ponte” tra lo studente egiziano, arrestato il 7 febbraio 2020 al Cairo e scarcerato l’8 dicembre scorso, e l’imprenditore veneziano, arrestato il primo aprile 2021 in Sudan, vittima dei continui rinvii delle udienze del processo al termine del quale, sperano i familiari, potrà tornare a casa. Accusato di frode per avere fornito a una ditta locale una partita difettosa di trasformatori di energia, destinati all’azienda elettrica del Paese, si era recato a Khartoum per tentare di sbloccare la situazione. È stato arrestato. Veneziano, 47 anni, tre figli, Marco Zennaro è trattenuto in Sudan dal primo aprile 2021. Da allora sono trascorsi 310 giorni. Quasi un anno, scandito dalle false speranze e dai 19 rinvii delle udienze del processo: per acquisire nuovi atti, perché mancano i giudici. Dal mazzo viene pescata una carta sempre nuova. Mercoledì era in programma l’ennesimo incontro, per un tentativo di soluzione stragiudiziale. «Un altro rinvio, senza date». Alvise, il fratello, lo dice con una voce che ha abbandonato speranze e illusioni. «È sempre così. Noi continuiamo a sperare, aggrappandoci alle giornate sul calendario, ma la soluzione viene spostata in avanti di continuo. Marco è in Sudan da quasi un anno. È provato psicologicamente e fisicamente. Può parlare al telefono con i figli, ma è devastato». Un pantano architettato ad arte. Perché quella che era una “semplice” denuncia per frode ha assunto contorni sempre meno puliti. Dietro la detenzione di Zennaro, ci sono le ombre degli stessi miliziani autori del colpo di Stato in Sudan di fine ottobre. Il primo aprile Zennaro viene condotto in una cella di commissariato di Khartoum. Un cella senza letti, condivisa con 30 detenuti, in condizioni igienico-sanitarie estreme. Vi rimarrà 75 interminabili giorni. Filtra una sua foto: la barba incolta, la fronte pregna di sudore. Si muove la Farnesina, si espone il ministro degli Esteri Di Maio, ci sono gli appelli del presidente veneto Zaia, del sindaco di Venezia Brugnaro, si mobilita anche il patriarca veneziano Francesco Moraglia. Intanto la laguna è tappezzata dagli striscioni «Marco libero». I veneziani si mobilitano, con una staffetta del digiuno. Ma in Sudan tutto resta immobile, Zennaro sprofonda nelle sabbie mobili di una giustizia che di “giusto” ha sempre meno. È il 14 giugno, Zennaro viene rilasciato dal carcere, ma non è la fine dell’incubo. Viene prima trasferito in albergo, agli arresti domiciliari. Adesso vive in ambasciata. Può uscire, ma resta il divieto tassativo di lasciare il Paese. E la fine è un orizzonte che si sposta a ogni passo. La vicenda di Zennaro è solo una goccia nell’oceano degli oltre duemila italiani detenuti all’estero. «Ma le storie di cui si può parlare sono quelle già concluse. Fare nomi e accendere i riflettori può essere l’innesco per le ritorsioni» spiega Katia Anedda, presidente della Onlus Prigionieri nel silenzio, nata per tendere una mano agli italiani detenuti all’estero. C’è il caso di Andrea Costantino, il trader milanese di 49 anni, il 21 marzo scorso prelevato da un albergo di Abu Dhabi, dove soggiornava con la moglie e la figlioletta, e condotto in carcere senza spiegazioni. Con gli appelli e le denunce della moglie che si susseguono: racconta di una detenzione in condizioni estreme, di una cella senza letti o materassi, dei 25 chili persi dal marito. C’è poi la vicenda, nota, di Chico Forti. Il 62enne trentino, dal ’92 negli Stati Uniti, nel 2000 condannato all’ergastolo per l’omicidio di Dale Pike, figlio dell’uomo da cui Forti stava acquistando un hotel a Ibiza. Forti si è sempre professato innocente. E poi c’è un caso senza nome né volto. Lo racconta Anedda, di Prigionieri nel silenzio. Un caso chiuso, per la giustizia. È il caso di uno skipper italiano, accusato di traffico di stupefacenti. Condannato a 15 anni di carcere e detenuto in Marocco. La polizia ha individuato della droga all’interno della sua barca. Lui ha sempre negato ogni coinvolgimento, ma non è servito. «Prima che scoppiasse la pandemia, riuscivo a parlare con lui, poi più niente» racconta Anedda. «Sta male, vive in condizioni terribili, con grandi problemi di salute. E ha il terrore persino di farsi ricoverare nell’infermeria della prigione. Non è questione di innocenza o colpevolezza, qui parliamo di diritti umani». —