La Stampa, 5 febbraio 2022
Il caso del cappotto di Cinzia Leone
Venerdì 28 gennaio la senatrice del Movimento Cinque Stelle, Cinzia Leone, andò alla Camera per votare il nuovo presidente della Repubblica. Entrò in Transatlantico, posò il cappotto su un divanetto e fece il suo ingresso in aula. Il tempo di votare, tornò al divanetto e il cappotto non c’era più. Cerca di qui, cerca di là, ma nulla da fare: del cappotto nessuna traccia. La senatrice congetturò che qualcuno lo avesse preso per sbaglio, confondendolo col proprio, e rincasò sguarnita nell’intemperie. Ma i giorni passarono e nessuno si fece vivo per restituire il maltolto, né i commessi, setacciato ogni piano, ogni stanza, ogni pertugio, vennero a capo del mistero. Esasperata, la senatrice deliberò di ricorrere alla pubblica denuncia, e due giorni fa scrisse un vibrante post su Facebook per dichiararsi INDIGNATA (il maiuscolo è suo). Nulla giustificava, non la «buona manifattura» e non «l’apprezzato brand», che il cappotto le fosse stato RUBATO (il maiuscolo continua a essere suo), tanto più nel luogo supremo della sacralità della legge. E così la vicenda prese la forma dell’allegoria della politica italiana, pronta ad arraffare l’arraffabile comunque e ovunque. Sinché ieri nel primo pomeriggio, spostando il divanetto all’origine della nostra storia, un commesso ritrovò il cappotto, scivolato giù dallo schienale. La prossima volta, hanno detto alla senatrice, anziché il divanetto che non è un guardaroba, usi gli attaccapanni che sono lì apposta. E la vicenda prese infine la forma dell’allegoria del grillino, sempre pronto ad addebitare alla disonestà altrui le conseguenze della minchioneria sua.