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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Giorgio Montefoschi

«Non un vero e proprio vento, una sottile brezza è salita dal fondo di via Mercati, ha sollevato il profumo della terra secca nelle aiuole, facendo volare un paio di salviettine di Hungaria...». Siamo ai Parioli, il quartiere di Roma che ospita la fantasia letteraria di Giorgio Montefoschi, da più di quarant’anni. E amato anche dal presidente Mattarella che proprio a via Lutezia aveva deciso di trasferire la sua residenza.
Enrico e Carla, protagonisti del suo diciannovesimo romanzo, Dell’anima non mi importa (La nave di Teseo, 310 pg, 19 euro, appena uscito), si amano e si detestano dentro una villa nella strada «parallela a via Mangili che da una parte incrocia viale Bruno Buozzi e dall’altra via Ulisse Aldrovandi, nel punto in cui costeggiando il muro del giardino zoologico inizia la discesa verso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna...». Tratteggia così il suo paesaggio urbano con la stessa cura con cui ritrae i personaggi: avvocati, architetti, immobiliaristi di una parte di città che ancora sogna.
«Mi scusi, la correggo... Interi capitoli sono ambientati all’Aventino, a Trastevere, il Ghetto, e poi in montagna. Forse così la smetteranno di dirmi che sono lo scrittore dei Parioli», scherza Montefoschi, romano, 76 anni, seduto al tavolo del bar di piazza Ungheria, di fronte alla chiesa di San Bellarmino, da cui comincia l’intreccio: di uomini e donne «che nel tradimento cercano una rinascita».
E lei che è sposato da sempre, cosa ne pensa del tradimento?
«Io sono un non traditore pentito».
Che vive di rimpianti?
«Assolutamente no. Ho avuto la fortuna di incontrare mia moglie. Un amore che non ho mai voluto contaminare».
Lo lascia fare ai suoi protagonisti che al pranzo di Pasqua parlano del film Eyes Wide Shut...
«Innegabile che il tradimento o la trasgressione siano argomenti di attrazione tra persone che cercano altro. Non soltanto emozioni. Figure paterne, materne, culturali».
Passioni per una collega o per l’amico della porta accanto, senza mai varcare il confine che esclude dal loro ambito sociale il resto del mondo. I Pariolini sono ancora così?
«So che la vita è cambiata, la città è cambiata e anche questo quartiere. Tutto vero. Ma io non lo voglio vedere. Quando nei romanzi devo affrontare una qualche bruttezza o volgarità, trasloco altrove. Magari a Vigna Clara, al Fleming, zone nate con il boom economico che non mi sono mai piaciute. A dire la verità non ho mai amato neanche il Nomentano, eppure ne ho scritto. Mi mette tristezza, con quelle ville dei gerarchi, abitate da una borghesia tetra».
Oltre ai Parioli dove altro sta bene?
«Vorrei dire che io da 30 anni vivo in campagna, a Saxa Rubra. Ma è qui, tra questi viali alberati, che respiro la mia aria. E qui immagino salotti con belle librerie, sobrietà e un benessere non ostentato. Tanti i ricordi, le passeggiate con Citati che abitava proprio a via Lutezia, la panchina a Parco dei Daini».
Ma Roma è grande!
«E ha delle zone affascinanti. Ma per raccontarle devi viverle. Se ambientassi una storia a Garbatella sarei un imbroglione. I luoghi hanno un’anima, non solo estetica, e rivelano verità».
Trastevere? Il suo Enrico ha un pied-à-terre tra i vicoli. È l’angolo della trasgressione?
«Trastevere mi piace, lo frequento, ma un po’ da straniero, come il protagonista del libro».
Che fa lunghe passeggiate, con l’amante Simona, all’Aventino e indugia davanti alle chiese. Perché?
«L’Aventino è la collina delle basiliche, luogo del pensiero e della preghiera. Del corteggiamento del mistero».
Mistero?
«Quello che dà inizio al libro. Il mistero della Resurrezione, il tema della mia vita. Un pensiero che mi ossessiona».
E qual è il legame tra la Resurrezione e gli amori extraconiugali?
«Le vicende umane devono avere uno sfondo che le trascenda. E il bisogno di rinascita spesso è il motore di una fuga».
Ma lei crede o no?
«Sono un cattolico che pratica, ma non credente. Un credente dovrebbe accettare la Resurrezione. Io vacillo e lascio le riflessioni ai miei personaggi».
E riflette anche sulla malattia, sulla morte? I suoi eroi prendono pillole, chiamano medici, finiscono in clinica...
«Io ho avuto vari scossoni dalla vita. E prendo tante pillole. La malattia l’ho sempre affrontata in modo spavaldo. È la morte a farmi paura. Mi dispiacerebbe andarmene, lasciare tutto, la famiglia».
Anche la famiglia è una sua ossessione?
«La famiglia è la base del romanzo. Che cosa è l’Odissea se non la storia di una famiglia, di un uomo che va via, di un figlio che lo cerca e di una moglie che lo aspetta? E Madame Bovary? Anna Karenina? La famiglia è un nucleo sociale di estrema ricchezza narrativa».
Quando pubblicò L’amore borghese e La felicità coniugale venne etichettato come scrittore della borghesia. La famiglia le ha creato anche qualche problema artistico?
«A ripensarci, solo un giovane incosciente come me poteva intitolare nel 1978 un romanzo L’amore borghese, in pieno post Sessantotto, con la borghesia fatta a pezzi, e pubblicare La felicità coniugale in un’epoca di disgregazione dei rapporti... Ci vollero dei critici intelligenti, come Alfredo Giuliani del Gruppo 63 o Giovanni Raboni, per spiegare che con un’apparente bonarietà descrivevo disagi e sofferenza».
Rispetto ad allora la sua scrittura è cambiata: con molti dialoghi è quasi cinematografica. O no?
«I dialoghi mi consentono di raccontare molto, risparmiando righe. Direi che da uno stile molto descrittivo con voci fuori campo, ora ho ceduto il microfono ai miei personaggi e le voci sono tutte in campo. Come su un set».