il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2022
Il punto sul pil (che è fermo)
L’agenda di politica economica delineata da Sergio Mattarella in Parlamento (ne leggete qui accanto) non è stata applicata in passato e rischia assai di restare sulla carta anche in futuro: per realizzarla servono infatti risorse – spesa tanto corrente che in conto capitale – e da questo punto di vista non tira una buona aria. Il combinato disposto dei dati più recenti sulla crescita (debolissima) e il niet della Germania a una riforma “keynesiana” del Patto di Stabilità (gentilmente consegnato ieri a Roma dal ministro Lindner) riportano l’Italia alla situazione ante-Covid: un Pil stagnante, uno Stato che non vuole e/o non è in grado di intervenire, un lento declino del sistema Paese insieme al rapido aumento di povertà e disuguaglianze.
Andiamo con ordine. Intanto i numeri. Bankitalia ieri ha diffuso il suo indice “eurocoin” per gennaio e il dato è brutto assai: l’indicatore, che misura l’andamento congiunturale dell’Eurozona, il mese scorso s’è fermato a 0,01 dallo 0,21 del mese precedente. Per capirci era intorno o sopra l’uno fino ad agosto e ancora in ottobre a 0,7: in sostanza in Europa, tra pandemia e crisi energetica, la crescita a gennaio era ferma. Un dato che coincide con la “Nota sulla congiuntura” dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), pubblicata giovedì, in cui vengono rilevati “numerosi segnali di rallentamento”. La previsione – quasi un auspicio in realtà, visto lo stato dell’arte – è che questa fase passerà in primavera e che la crescita per il 2022 si attesterà al 3,9% “rallentando nel 2023 all’1,9%, anche per via dell’intonazione meno espansiva delle politiche economiche”.
Riportiamo questi numeri, basati su rilevazioni recenti, per sottolineare un fatto: nel biennio 2022-2023, se andrà bene, mancheranno circa 2 punti di Pil rispetto alle stime inserite dal governo nella Nadef (e che peraltro tenevano conto di un Superbonus 110% a pieno regime, responsabile di un bel pezzo della crescita del 2021 e ora di fatto bloccato). Il tutto, va ricordato, mentre la Bce sembra pronta a una politica monetaria più restrittiva già quest’anno con relativo aumento del servizio del debito (la spesa per interessi). Tradotto: lo spazio di manovra di Mario Draghi e del suo governo potrebbe essere anche meno ampio di quel che sembra per ristori, caro-bollette e ogni altra preoccupazione della sua vasta maggioranza.
Quando l’Upb parla di “intonazione meno espansiva delle politiche economiche” dal 2023 si riferisce a un bilancio pubblico che è previsto restringersi rapidamente, riportando il deficit sotto al 3% del Pil e addirittura, come previsto dal Pnrr, avviare una significativa spending review (tagli di spesa). È qui che entrano in scena le parole (affidate a Repubblica) con cui il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner si è presentato a Roma, dove ieri ha incontrato il suo omologo Daniele Franco. La riforma del Patto di Stabilità è il vero compito di Draghi a Palazzo Chigi: aiutare l’Italia a ottenere regole di bilancio meno penalizzanti delle vecchie (che peraltro lo stesso premier contribuì a scrivere). Significa abbandonare il controllo ossessivo dei conti semestre per semestre, che ha avuto effetti recessivi in mezza Europa, e concentrarsi su obiettivi a medio termine, puntando sulla crescita per tenere deficit e debito sotto controllo.
L’Italia a questo fine ha stretto un asse con la Francia, ma la Germania non pare tanto collaborativa e qualcosa conta: “Non sempre un cambiamento è un miglioramento. È importante che il debito pubblico dei Paesi Ue resti nel suo insieme sostenibile”, dice Lindner. E una maggiore condivisione dei rischi come proposto da Draghi e Macron? “Non penso che la messa in comune dei rischi e l’ammorbidimento delle regole comuni ci facciano fare progressi”, al massimo qualche eccezione si farà per “gli investimenti in tecnologie avanzate, tutela ambientale e altre priorità”, ma occhio “non sono soldi da spendere per le pensioni, altre spese correnti o la redistribuzione”. Allora magari un Next Generation Eu permanente? “No”. Forse l’unione bancaria? Ecco, lì “dobbiamo capire come valutare le banche che hanno una quota particolarmente alta di titoli di Stato nei loro bilanci” (cioè quelle italiane). E allora? L’Italia ha il Pnrr, “riceverà 200 miliardi di euro” – che avrà solo se la Commissione e i Paesi Ue diranno che sta facendo i compiti – e “non deve temere il Patto di Stabilità”. E perché mai? Finora è andata così bene…