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 2022  febbraio 04 Venerdì calendario

Dario Argento si racconta

Quando è arrivato il lockdown, Dario Argento era preparato. "Sono un esperto di auto-confinamenti" racconta il regista seduto sul divano nel salotto del suo appartamento nel quartiere Trieste. "A partire dal mio primo film, L’uccello dalle piume di cristallo, per scrivere mi sono sempre isolato in alberghi o case sperdute nel nulla dove, pagina dopo pagina, mi spaventavo delle mie stesse trovate. Stavolta è stato più facile: sono potuto rimanere tranquillamente a casa". Ovvero, in questo rifugio-studio carico di premi, memorabilia horror e suppellettili preziose, tra cui un tappeto con le iniziali D.A. regalo di Alessandro Michele di Gucci.

Qui, l’81enne Maestro del brivido ha dato gli ultimi ritocchi alla sceneggiatura di Occhiali neri, il suo ventesimo film da regista che arriverà in sala il 24 febbraio. La pellicola racconta l’odissea di Diana, una escort interpretata da Ilenia Pastorelli che, mentre cerca di sfuggire in auto a un serial killer, si scontra con la vettura di una famiglia cinese composta da padre, madre e un bambino di 10 anni, Chin (Xinyu Zhang).

Quest’ultimo, sopravvissuto allo schianto, diventerà gli occhi della ragazza, resa cieca dall’incidente, e la condurrà insieme al cane-guida Nerea nei meandri di  una Roma oscura e ipnotica.


Ci sono tutti i temi classici argentiani - la cecità della protagonista che richiama quella di Karl Malden nel Gatto a nove code (1971), l’architettura dell’Eur già sfondo di Tenebre (1982), gli animali "alleati" e la follia inarrestabile del maniaco - per un ritorno in grande stile alle atmosfere dell’Italian giallo che hanno reso il cineasta romano un mito in tutto il mondo. Ora celebrato con retrospettive a Roma e al Lincoln Center di New York, un libro di Steve Della Casa (Dario Argento. Due o tre cose che sappiamo di lui, Electa) e l’attesissima mostra-monstre prevista in primavera al Museo del Cinema di Torino, città-simbolo del suo immaginario e sfondo della sua opera più celebre, Profondo Rosso (1975).
Ma, soprattutto, l’11 febbraio prossimo Occhiali neri verrà presentato al Festival del Cinema di Berlino nella sezione Special Gala, fortemente voluto dal direttore Carlo Chatrian.

Lei non ama le cerimonie e detesta rivedere i suoi film. Anche stavolta cercherà di sgattaiolare via dalla sala non appena le luci si spegneranno?
"Resisterò per rispetto ai miei produttori e al Festival. Ma so già che sarà una tortura. Quando riguardo per la prima volta un mio film, mi sento a disagio perché non lo capisco. Non mi riferisco alla storia, ma alle ragioni profonde che mi hanno portato a realizzarlo. Ci metto sempre molto tempo. Un po’ come quando si interpretano i sogni".

Nel suo caso, si tratta più di incubi. Comunque entrambi sono generati dall’inconscio e questo ci porta a Freud, la sua più grande fonte d’ispirazione.
"Ho letto tutti i suoi libri, visitato la sua casa-museo a Vienna tante volte. L’invenzione della psicoanalisi ha cambiato tutto: il cinema, la pittura, la letteratura, noi. Però non mi sono mai voluto stendere sul lettino. La creatività è un processo delicato e che va protetto da interferenze esterne".

A proposito di interferenze esterne, l’idea di Occhiali neri risale addirittura al 2002 ed era stata pensata per sua figlia Asia. Perché ci ha messo vent’anni per realizzarlo?
"Doveva produrlo Cecchi Gori, ma poi la sua società è fallita ed è rimasto in un cassetto. Finché un giorno Asia, che in quel momento stava scrivendo la sua autobiografia (Anatomia di un cuore selvaggio, Piemme, ndr), mi ha chiesto di guardare alcune mie carte e ha ritrovato la sceneggiatura. Senza dirmi niente se l’è portata a casa e l’ha letta. Il giorno dopo mi ha telefonato per dirmi che era bellissima e che dovevo assolutamente girarlo. Il suo entusiasmo mi ha convinto. Lei è produttrice associata del film e ha anche una parte: è un’istruttrice per persone non vedenti".

Invece per il ruolo di Diana ha scelto Ilenia Pastorelli.
"Non l’avevo vista in nessun film, ma l’ho incontrata e ho capito che era la scelta giusta. Io non faccio i provini, non li ho mai fatti. Faccio un colloquio come Martin Scorsese e tanti altri registi americani. Finora è andata sempre bene".

E il bambino che interpreta Chin come lo ha trovato?
«Quello è stato più difficile. Ho cercato per parecchio tempo nelle città italiane con le più nutrite comunità di cinesi: Roma, Firenze, Prato… Alla fine, l’ho trovato a Milano. Xinyu mi ha colpito grazie a un video fatto dalla mamma in cui si presentava e parlava di se stesso: a 10 anni si esprimeva come un ragazzo di 18! I cinesi crescono in fretta, diventano adulti e saggi molto più velocemente di noi».

Anche lei ha fatto un colloquio con Gaspar Noé che l’ha voluta come protagonista del suo film Vortex, presentato all’ultimo festival di Cannes?
"Gaspar è un amico, lo conosco da tanto tempo. Un giorno è venuto a Roma e mi si è piazzato in casa. Ho capito che non se ne sarebbe andato finché non gli avessi detto di sì. Mi è piaciuto recitare perché era tutto improvvisato, come nel neorealismo dei primordi. E io mi considero un figlio del Neorealismo: tutti noi registi lo siamo. Interpreto un critico cinematografico che vive a Parigi con la moglie affetta da demenza senile".

Un ritorno alle origini. Prima di diventare regista, lei ha fatto per anni il critico per Paese Sera. E poi ha iniziato a scrivere sceneggiature e soggetti, tra cui C’era una volta il West di Sergio Leone, insieme a Bernardo Bertolucci.
"Lavoravamo tutti e tre nello studio di Leone a Casal Palocco. Sergio era un gigante. Ricordo che una volta non riuscivamo a venire a capo di uno snodo e lui andò in bagno. Tornato con la soluzione, disse: "La gente sottovaluta l’importanza che ha andare di corpo". Il cinema è fatto così, di piccole cose" (ride).

Anche di un’indigestione. Nella sua autobiografia Paura (Einaudi) racconta che l’idea dell’Uccello dalle piume di cristallo le venne per colpa di un cous cous molesto.
"Ero in spiaggia in Tunisia, il sole mi batteva forte sulla testa. Tra un po’ crepavo... E invece ebbi questa visione di un uomo in trappola tra due pareti di vetro che assiste a un omicidio. Tornai subito a Roma per fare il film. Anche l’idea per Profondo Rosso nacque da una visione: una medium che passando accanto a una persona ne avverte le intenzioni omicide".

Dopo Profondo Rosso passò all’horror con Suspiria (1977) definito dal Lincoln Center  "uno dei più potenti allucinogeni della storia del cinema". Lei non ha mai fatto mistero di aver fatto uso di droghe.
"Ho provato la cocaina. E ho fumato hashish o marijuana tutti i giorni dai 30 ai 70 anni: ho smesso perché mi faceva venire la bronchite. Ma le droghe non hanno mai influenzato la mia creatività. Sono un fatto personale. Lo diceva pure Hemingway: casomai l’alcol ti deprime, non ti fa scrivere".

Invece i traumi - altro tema centrale del suo cinema, ci ha intitolato pure un film - possono essere un grande aiuto.
"Non dimenticherò mai la volta in cui i miei genitori mi portarono a vedere l’Amleto di Shakespeare a teatro. Avevo quattro anni e alla vista del fantasma del padre di Amleto lanciai un urlo fortissimo. Da allora ho sempre cercato di ritrovare quella sensazione infantile e di farla provare ai miei spettatori".

Terrore puro e senza sovrastrutture, a differenza dell’horror americano. Dai suoi amici  Romero e Carpenter fino al recente Scappa. Get Out, c’è sempre un sottotesto politico.
"Gli americani non hanno un vero cinema impegnato. I loro film politici si trasformano sempre in qualcos’altro. Philadelphia, ad esempio, è un film sull’Aids che a un certo punto diventa un legal drama. Così hanno lasciato agli autori dei film horror lo spazio per parlare di società e politica. Io invece non ho mai voluto farlo".

Con Romero ha collaborato più volte: producendo Zombi e poi con il film a quattro mani tratto da Poe, Due occhi diabolici.
"George era un grande amico, il mio fratellino. Purtroppo nell’ultimo periodo beveva tanto. Ricordo che una volta eravamo entrambi al British Film Institute per una retrospettiva e lui si scolò una bottiglia di whiskey in pochi minuti. Disse che lo faceva perché parlare in pubblico lo innervosiva. Ma l’alcol lo rendeva negativo, si concentrava più sui fallimenti che sulle cose meravigliose che ha realizzato. Che peccato. Lui ha inventato lo zombie per come lo conosciamo adesso. Senza i suoi film non ci sarebbero The Walking Dead e tantissimi altri film e serie tv che hanno “rapito” la sua creatura, utilizzandola nello stesso identico modo. A volte gli dicevo: ma non sei arrabbiato? E lui: “ma no, la vita è fatta così, anche io mi ispiro a tanti film, opere d’arte". E io: Ma quello è copiare più che ispirarsi! E lui: “non importa, non fa niente”. Questo era George Romero".

Il "disimpegno" negli anni 70 non era visto bene. Nonostante la sua provata fede a sinistra, il Movimento la contestava. E anche le femministe.
"Ora sono le mie più grandi ammiratrici. Hanno capito che la femminilità è centrale nel mio immaginario. Viene tutto da mia madre, la fotografa Elda Luxardo. Ho passato anni nel suo studio a guardarla mentre ritraeva le attrici, studiando luci e trucco per esaltarne bellezza e personalità. E quando poi ho iniziato a fare cinema, le donne sono diventate le eroine dei miei film".

In Oriente - soprattutto in Giappone e Corea - la adorano e lei ha spesso detto di sentirsi veramente capito solo lì. Si è spiegato il perché di tanto amore?
“Non del tutto. Ho chiesto lumi anche alla mia cara amica Banana Yoshimoto. Forse è per via del senso estetico dei miei film: il gusto dell’immagine, dell’indagare dentro se stessi, andare nel profondo. Nella loro cultura, in letteratura e nel cinema, e ovviamente anche nei manga, questi aspetti sono fondamentali conta moltissimo. Così come contano i fattori onirici, le ossessioni, le allucinazioni addirittura. Tutte queste emozioni, così personali ed intime, sono pure, vere, non filtrate dalla cultura corrente. Posso dire che analizzare il loro amore per il mio cinema mi ha aiutato a capirmi meglio».

Nel 2018 Luca Guadagnino ha rifatto Suspiria. Le hanno proposto altri remake, reboot, sequel?
"Gli americani mi hanno proposto di rifare i miei primi tre film, quelli della cosiddetta "Trilogia zoologica" (L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, ndr). Dovrei avere anche un ruolo creativo, però non riesco a immaginare come. Quei film li ho già fatti. Non ho altro da aggiungere".

Lei è stato anche un precursore delle serie tv. Nel 1973 realizzò La porta sul buio, quattro brevi film gialli per la tv che andarono in onda sul Primo Canale della Rai. Adesso la chiamerebbero showrunner.
"Mi ispirai ad Alfred Hitchcock presenta. Però diressi solo un episodio con lo pseudonimo di Sirio Bernadotte, Il tram, in cui recitava Enzo Cerusico. Fu un grande successo ma cI furono anche un sacco di proteste e tentativi di censura: addirittura La stampa riportò la notizia di un’ondata di assenteismo alla Fiat di Torino per colpa dell’episodio Il vicino di casa. Dopo aver visto l’episodio, molti operai, terrorizzati, non erano voluti andare al lavoro per stare vicini alle proprie famiglie".

Ritornando agli animali: per Phenomena (1985) fece allevare e "addestrare" un miliardo di mosche in un’impresa alla Fitzcarraldo. Stavolta si è reso le cose più facili grazie al digitale?
"No, i serpenti che si vedono in Occhiali neri sono in parte veri e in parte finti, realizzati da Sergio Stivaletti. Con il digitale abbiamo solo cancellato i fili. Gli effetti speciali manuali hanno una magìa tutta particolare che è impossibile replicare con il digitale".

I suoi film si ricordano anche per le colonne sonore. Morricone nei primi tre, i Goblin di Profondo Rosso e Suspiria, Keith Emerson in Inferno. Invece per Occhiali neri inizialmente aveva scelto i Daft Punk.
«Sì, era cosa fatta, finché un giorno non mi ha chiamato il loro manager per dirmi che si erano sciolti e che non avrebbero più scritto le musiche del mio film. Allora Asia mi ha suggerito un compositore francese, Arnaud Rebotini. Non lo conoscevo personalmente, ma avevo apprezzato le sue musiche per alcune pellicole francesi. Per Occhiali neri ha composto una colonna sonora elettronica molto dura e martellante, che mi ricorda un po’ quelle del mio amico John Carpenter».

È vero che un trasgressivo come lei va a messa regolarmente?
"Sì. Mia nonna era molto credente e io ho studiato dai preti, al collegio Nazareno. Ma per molti anni ho abbandonato la religione: ero diventato ateo. È stata la morte di mio padre (il produttore Salvatore Argento, con cui ha realizzato tutti i suoi film fino a Tenebre, ndr) a farmela riscoprire. Lui se ne andò il giorno di Pasqua, e con Asia andammo a San Pietro ad ascoltare Papa Wojtyla: in me scattò qualcosa. Chiariamoci, non sono stato folgorato sulla via di Damasco. È stato un processo molto lento, in cui mi ha aiutato una suora sudamericana di una chiesetta vicino a casa mia. Grazie a lei ho riscoperto la fede".

Ci rassicuri: non smetterà mica di fare film pieni di sangue e follia?
"Ma no. Anche in Occhiali neri c’è molto Male. Non mi sono risparmiato niente e spero che il pubblico lo apprezzi. Se c’è una cosa che non ho mai sopportato sono gli spettatori che di fronte alle scene più spaventose dei miei film si mettono le mani sugli occhi. L’altro giorno in pizzeria, una signora mi ha detto che non è mai riuscita a vedere Profondo Rosso perché troppo spaventoso e disturbante. Ma l’orrore non va evitato: bisogna affrontarlo e guardarlo fino in fondo".