Corriere della Sera, 4 febbraio 2022
Intervista ad Arianna Fontana
A Torino 2006 era una bambina. Feroce, ma bambina. Cinque Olimpiadi dopo, Arianna Fontana è una delle donne dell’attacco azzurro a tre punte (oltre a lei Moioli e Goggia, in bocca al lupo) a cui si chiede di bissare l’oro di Pyeongchang 2018. «Eh, sarebbe bello – dice l’atomica bionda, ormai maritata e quasi 32enne —, la concorrenza europea è cresciuta, le americane vanno forte, coreane, cinesi e canadesi sono le atlete da battere. Ci sono anch’io, certo. L’obiettivo è centrare tutte le finali, poi si vedrà. Fino all’ultimo metro nello short track può succedere di tutto». La rincorsa alla prima, nei suoi 500 metri dorati, comincia domani a Pechino.
Arianna, come si mantiene la ferocia pattinando lungo 16 anni di short track?
«Ponendosi dei traguardi. A 15 anni vivevo il mio sogno olimpico, e arrivò un bronzo in staffetta. A Vancouver inseguivo il successo individuale, Sochi pensavo fosse l’ultima ma, avendo vinto l’argento, ho dovuto proseguire fino a Pyeongchang».
E Pechino che senso ha dentro questa trama?
«Mio marito Anthony, che mi allena, mi ha mostrato una nuova me, un nuovo livello che nemmeno pensavo esistesse. Sono la stessa Arianna di Torino ma con più esperienza, ho capito come gira il mondo, ho imparato a combattere le battaglie che val la pena combattere e a tacere quando devo stare zitta. Prima ero impulsiva, ora so pensare».
Perché suo marito Anthony Lobello, ex pattinatore italo-americano, è così mal digerito dalla Federghiaccio?
«Buona domanda: non me lo so spiegare. La Federazione ha cambiato quattro allenatori in quattro anni, c’è gente che se n’è andata due mesi prima dei Giochi: possibile che non suoni un campanello d’allarme? Certe decisioni hanno creato situazioni non comode…».
Eppure che Anthony sia un pilastro del suo benessere non è complicato da capire.
«Credo in lui come allenatore, prima ancora che come marito. Ne sa, si aggiorna, cerca sempre qualcosa di nuovo. Non ho più 14 anni: devo lavorare di più e meglio, e lui sa come farmelo fare. Sa come prendermi».
Pare di capire che con la Federghiaccio abbia firmato una tregua armata.
«Tante cose devono cambiare e migliorare. Alla fine dei Giochi ci sarà modo di sputare qualche rospo. Per darsi la chance di vincere non bisogna mai accontentarsi».
Nel frattempo è stata costretta ad andare ad allenarsi a Budapest.
«Anthony era stato allenato dal coach coreano che ora è con gli ungheresi. Sapeva che il carico asiatico (la trasferta, la bolla, il fuso) non sarebbe stato facile da gestire. Nell’Ungheria pattinano i ragazzi più forti del mondo: allenarmi con gli uomini è stato uno stimolo. Poi, a un certo punto, non ci hanno più voluti: si sono sentiti minacciati. A settembre ho pattinato a Bormio, da sola. Poi, piano piano, sono rientrata in squadra».
Fontana
Magari divento mamma e poi torno per i Giochi in casa: sarebbe il modo migliore per chiudere
Lo short track, con la pandemia, è stato tra i pochi sport a riuscire a organizzare delle pre-olimpiche a Pechino. Dalla bolla sapeva cosa aspettarsi.
«Non una bella situazione. L’albergo blindato, la polizia alla porta, la pista a 500 metri e l’impossibilità di andarci a piedi. Una vita indoor, senza luce naturale. Soffocante. Una volta che ho provato ad uscire all’aperto mi hanno inseguita con i walkie talkie: Fontana wanted, li sentivo dire…».
Un’Olimpiade a porte chiuse, senza pubblico, la turba?
«No. Sul ghiaccio non sento niente, infilo il caschetto e mi isolo nel mio spazio. Veniamo da quattro tappe di Coppa del Mondo senza tifo, ormai sono abituata».
Lei era stata portabandiera a Pyeongchang: ha mandato un messaggio a Moioli?
«Michela imparerà presto che la bandiera non è un peso, è una carica mai sperimentata prima da sfruttare al meglio».
Otto medaglie olimpiche, 16 mondiali, 45 europee… Dove tiene tutto, Arianna?
«A casa dei miei, io non ho niente. Quando finalmente avrò una dimora fissa e non rimbalzerò più tra Italia e Florida, casa dei genitori di Anthony, mi piacerebbe organizzare tutto sotto forma di piccolo museo in Valtellina».
Quindi dopo Milano-Cortina 2026.
«Eh, ammetto che ci penso… Iniziare a Torino e finire a Milano vent’anni dopo sarebbe la chiusura perfetta. Non riesco a immaginare miglior modo di sfilarmi i pattini. Però a Milano-Cortina non vado per partecipare: io e de Coubertin non siamo mai andati d’accordo».
Ma diventare mamma a quasi 36 anni non sarà troppo tardi?
«E chi l’ha detto che debba aspettare il 2026? Magari succede prima, e poi torno».