Corriere della Sera, 4 febbraio 2022
Intervista a Kenneth Branagh
Sulla carta non potrebbero essere film più diversi, uno, Belfast, in bianco e nero. L’altro, Assassi nio sul Nilo, è una produzione targata Disney che in un mondo pre-pandemico avrebbe potuto definirsi «di cassetta». Il primo racconta una personalissima storia di crescita, l’altro, è un classico del cinema. Li accomuna la regia di Kenneth Branagh, 61 anni, una carriera di successo sia davanti che dietro la telecamera. Belfast ha appena ottenuto sei nomination ai Bafta e si predispone a fare altrettanto bene agli Oscar. È la storia dell’infanzia di Branagh nell’Irlanda del Nord degli attentati terroristici dell’Ira. Assassinio sul Nilo è la conseguenza del successo del 2017, Assassinio sull’Orient Express, che vedeva Branagh nei panni del leggendario Poirot. Sarà al cinema il 10 febbraio, tra i protagonisti Gal Gadot e Armie Hammer.
Siamo nel 2022: il film è stato finito di girare nel 2019.
«Poco prima che il mondo chiudesse per pandemia, ma non abbiamo ceduto alla tentazione dello streaming. È stato girato in 65 millimetri ed è un’esperienza cinematografica. Aspettare era la cosa giusta da fare».
Perché Poirot? A cosa deve il suo eterno successo?
«La risposta personale è che amo Poirot e la sua rigorosa posizione morale. Per lui c’è il giusto e lo sbagliato, e niente in mezzo. Riguardo al perché di un successo che si ripropone nel tempo, credo che sia dovuto al fatto che esistono generi e ricette che non passano mai di moda. Il primo adattamento cinematografico di un giallo di Agatha Christie risale al 1928».
«Assassinio sull’Orient Express» aveva a che fare con la vendetta. Ora è l’amore a tessere le fila del racconto.
«C’è una donna benestante attratta da un uomo legato a un’altra donna. C’è un matrimonio in un ambiente esotico e la compagnia di persone che dicono di essere amiche. C’è la seduzione, il tradimento, il triangolo amoroso, il glamour, la tensione sessuale».
Tutto come nel libro?
«Non proprio. Credo che la qualità di questo film sia legata dalla capacità dello sceneggiatore, Michael Green, di dare un approccio più contemporaneo e giovane alla storia. Rappresenta il potere corrosivo della lussuria in un’ambientazione lussuosa. Ora la storia è più giovane e sexy».
Il successo del primo film vi ha permesso di prendervi qualche licenza?
«Ci ha permesso, o forse è meglio dire suggerito, di prendere in considerazione l’idea di ascoltare il pubblico, cosa che abbiamo fatto. Così torna Bouc, interpretato da Tom Bateman, che è il braccio destro di Poirot, e arriva Euphemia, che ha il volto di Annette Bening e che non è nel romanzo. Trae ispirazione da altri personaggi materni del racconto ed è una creatura lucida, acuta e piuttosto scettica sulla natura umana».
Dopo Poirot ha diretto «Belfast», la storia della sua infanzia nell’Irlanda del nord. Corrono voci di candidature agli Oscar.
«Non le ascolto. Ho voluto fare un film sull’importanza della memoria e delle radici e raccontare di come il mondo di un bambino può cambiare da un momento all’altro, ma non è il tentativo di fare un quadro di quegli anni turbolenti. È solo l’esperienza di una famiglia».
E quella di un bambino che a 9 anni lascia la città dove è nato...
«È stato un momento definitivo, importante, per la mia vita. È stato lì che ho smesso di essere certo di sapere chi ero e ho iniziato a indossare la serie di maschere che mi ha portato a fare quello che so far meglio, recitare, il cinema».