Corriere della Sera, 4 febbraio 2022
Intervista a Carlo Lucarelli
Non ci crede nessuno.
«Ma è vero. Per anni, in gioventù, mi sono mantenuto scrivendo commedie teatrali».
Facevano ridere?
«Eccome, erano di una comicità crassa. Scrivevo testi per piccole compagnie del Bolognese, tipo quelle del festival medioevale di Brisighella. Lì non puoi andare per il sottile, la gente in piazza la devi far sganasciare».
Ma lei non era l’uomo del brivido, quello dell’imitazione di Fabio De Luigi che fa «Paura, eh?», quello delle trasmissioni televisive che non fanno dormire la notte?
«Far ridere è forse più difficile che far paura. E poi scrivere storie di suspense ha un che di sadico. Me ne sono accorto leggendo il manuale delle torture dei servizi di intelligence: anche noi giallisti imponiamo la privazione del sonno, facciamo perdere il senso dell’orientamento, operiamo una deprivazione sensoriale. Manca solo il waterboarding, per il resto c’è tutto».
Lei è nato a Parma, è cresciuto a Faenza e oggi ha scelto di vivere a Mordano, piccolo centro del Bolognese. La provincia ricorre spesso nella biografia dei giallisti, come mai?
«Nel mio caso non saprei, poi sa, Tondelli parlava di quelli che abitano a Modena, lavorano a Bologna e vanno a ballare a Rimini. Qui le città distano tra loro poche decine di chilometri».
Nato nel 1960, i suoi genitori divorziarono presto. Come l’ha vissuta?
«Bene, anche se all’epoca era comunque una condizione strana. Non ero una cima a scuola. Alle medie volevano mandarmi nelle sezioni speciali, quelle per ragazzi con problemi. Mi iscrissi all’università a Bologna, ma non ho mai discusso la mia tesi perché quella ha finito per diventare il mio primo romanzo, Carta bianca, avvio della trilogia con il commissario De Luca».
Era il 1990, Elvira Sellerio decise di scommettere su di lei e oggi Carlo Lucarelli è una macchina narrativa di circa due milioni di copie vendute. Ma prima di quel 1990 quanti rifiuti ci sono stati nella sua carriera?
«Possiamo contarli in anni e anni di “no”, almeno sette o otto. Io scrivevo sin dalle scuole superiori ma all’epoca il giallo era un territorio pressoché inesistente, perché c’erano solo i Gialli Mondadori. Così io ogni due mesi inviavo uno scritto alle case editrici accompagnandolo sempre con lo stesso messaggio: “Non è un granché ma sono molto giovane e posso migliorare”. Niente. Non mi rispondeva mai nessuno».
Sellerio e Transeuropa (con Pino Cacucci) furono tra le prime case editrici ad accorgersi che il giallo era una terra fertile in Italia?
«Sellerio scelse di pubblicarmi perché essendo un editore “di frontiera”, aveva deciso che il giallo era un genere di confine. Scommessa vinta, perché dopo tutte o quasi le case editrici cominciarono a coltivare i giallisti. Quando Adelphi puntò su Simenon capimmo che era fatta. Io sono stato fortunato ad intercettare quel momento, perché chissà quanti autori di generazioni precedenti si sono persi nel disinteresse e nel pregiudizio nei confronti di questo genere letterario. Elvira Sellerio capì che il giallo è prima di tutto un romanzo. Poi, certo, ha le sue regole, ma la qualità narrativa viene prima».
Nel 1980 però c’era stato Umberto Eco con «Il nome della rosa».
«Se è per questo, che cosa è Petrolio di Pasolini se non un bellissimo noir, a patto che venga sfrondato di una serie di strutture linguistiche? Il problema era riconoscere qualità letteraria al giallo. Oggi ci sono infinite sfumature nel noir, dal grottesco al pulp al biografico. Perché quegli steccati sono caduti. Ma allora non era così: c’era la collana Mondadori e poco altro».
Eccoci a Bologna, con il famoso «Gruppo dei 13». Lei, Fois, Macchiavelli e altri giallisti riuniti in una sorta di cooperativa.
«Già, modello emiliano. Ma è stata un’idea vincente, perché abbiamo deciso di unirci e non di farci la guerra tra di noi. Ci aiutavamo a vicenda, presentandoci reciprocamente i libri. Provi a immaginare: Andrea De Carlo che presenta i libri di Baricco all’epoca era un’ipotesi lunare. Non capisco perché anche altri scrittori e scrittrici non si uniscano. Ci si guadagna in forza, identità, resistenza all’usura del tempo».
Bologna è stata un buon collante?
«A dire il vero pochi di noi erano bolognesi. Quando decidemmo di mobilitarci per appoggiare Cofferati capimmo che quasi nessuno votava qui. Uno votava a Parma, uno a Modena. Bologna è stata un teatro dove abbiamo fatto cose. Presentazioni, iniziative, laboratori. Ci spostavamo in gruppo, usavamo il furgone della moglie di Fois che lavorava in una piscina».
Lucio Dalla vi appoggiava?
«Non in senso stretto, ma l’ho conosciuto bene. Una sera lo salvai dall’assalto della folla, i fan con lui erano implacabili».
Che sfumatura ha il rosso politico di Bologna?
«Molto complesso. Per esempio, almeno negli anni d’oro della sinistra, l’omofobia non era così infrequente. C’era una specie di machismo alla Che Guevara, dunque non era così strano sentir dire un militante che avrebbe preferito un figlio fascista piuttosto che omosessuale».
Libri, trasmissioni televisive, scrittura di fiction tv, documentari. Lei è diventato ricco?
«Benestante».
Si spieghi meglio.
«Prima della nostra generazione, gli scrittori avevano un rapporto particolare con i soldi e con i compensi. Nel senso che i romanzieri che potevano permettersi di non avere un altro lavoro erano pochissimi. E quasi tutti ricchi di famiglia. Io credo che ci sia stata una svolta: noi ci siamo accorti che forse non si campa di romanzi, ma di scrittura sì e allora non abbiamo avuto timore di affiancare l’attività narrativa alla scrittura per la televisione, a quella per il cinema, ai fumetti, alla drammaturgia. Ad un certo punto la contaminazione è diventata arricchimento, come è giusto che sia».
È vero che Fausto Bertinotti non si addormenta se non legge un passo di Lucarelli?
«Non so, di certo mi legge. Così come fa anche D’Alema, almeno per quello che so io. Non voglio parlare dei lettori illustri, però mi ha colpito moltissimo quando due mostri sacri come Don Winslow e Michael Connelly hanno citato il mio Almost Blue».
Carlo, lei dov’era il 2 agosto 1980?
«In vacanza con i miei sul Gargano. E la cosa assurda è che venimmo a conoscenza della strage di Bologna il giorno successivo, perché le notizie viaggiavano con lentezza».
Lei si è occupato dell’attentato alla stazione nelle sue trasmissioni. Che idea si è fatto?
«Quando sono andato a citofonare al portone dove ha sede l’associazione dei parenti delle vittime mi sono reso conto che quello stabile ospita anche le associazioni in memoria delle vittime della Uno Bianca e della strage di Ustica. Allora ho riflettuto: questa città è stata, periodicamente, il bersaglio di attacchi diventati, in seguito, ferite nazionali. Forse perché Bologna riesce a essere il centro di un vero cambiamento? Forse perché la Bologna che amo è quella che scende in strada e si mette a scavare per ritrovare i corpi sepolti dalla strage? Bologna ha un potenziale civile immenso e non a caso la storia si ferma qui, anche nelle sue vesti più tragiche».
Lei ha due bambine. Verrebbe da chiederle che giochi inventa per loro, perché ci si immagina subito un riferimento all’horror: le fa giocare con le streghe di pezza?
«Ma no, gliel’ho detto che so essere anche divertente».
Ci racconta l’incontro con Dario Argento?
«Uh, il grandissimo Dario Argento. Dunque, lo incontrai per la prima volta ad un festival, ma ci salutammo e basta. Poi fu lui a telefonarmi, perché stava lavorando ad un film e non voleva scrivere la parte che riguardava i poliziotti, parte che intendeva affidare a me. Quando mi chiese di collaborare alla scrittura di Non ho sonno volle venire a trovarmi a Mordano. Allora una sera gli proposi un cinema e nell’unica sala del paese andammo a vedere Il mistero di Sleepy Hollow. Lei pensi: io e Dario Argento che vediamo quel film».
«Paura, eh?», direbbe De Luigi.
«Ma non è tutto. Caso volle che quella sera nel cinema si rompesse il riscaldamento e così il pubblico poté vedere Argento che batteva i denti, ma non per la paura, bensì per il freddo. Non le dico la scenata che fece poi alla cassa».
Come è riuscito a trasformare un personaggio cinico, disilluso e carogna come Coliandro in un ispettore da serata Rai?
«Semplice: siamo arrivati a un compromesso con la Rai. Di snaturare il mio personaggio non ne volevo sapere e così abbiamo smussato alcune cose. Per esempio, alcune parole o parolacce che dice nel libro vengono leggermente distorte per farle diventare ironiche».
C’è chi dice che fare le fiction di mafia è dannoso perché si crea un’empatia con i criminali.
«Non sempre. Per esempio se io seguo le vicende di Tony Soprano non vorrei mai assomigliare a lui. Se vedo il Padrino, invece...».
Spesso i gialli iniziano con una donna fatta a pezzi.
«Anche qui, tutto dipende dalla qualità. Se il racconto è fatto bene, si finisce con il deplorare l’assassino, se il racconto strizza l’occhio a istinti sbagliati, per me quello è solo un cattivo romanzo. Una volta organizzammo un premio per giallisti esordienti. In giuria c’erano due autrici che bocciavano i lavori in cui si parlava di donne che soffrivano. Non sono d’accordo: per me c’è buona e cattiva scrittura, e se la scrittura è buona bisogna farla parlare».
Quando conobbe Jodith, sua moglie, lei le disse subito che lei non voleva sposarsi, né convivere né avere figli. Com’è finita?
«Che siamo sposati, viviamo assieme e abbiamo due figlie».