la Repubblica, 4 febbraio 2022
Il Dnepr, il gran Fiume tra Mosca e Kiev
Il canto – o il lamento – del Gran Fiume comincia nella notte del diluvio universale, come se tutti i miti di quell’impero di terre sterminate che portano il nome delle Russie dovessero iniziare e finire nell’acqua, sorgente primigenia, fonte purificatrice, onda che sommerge e travolge, ma custodisce i segreti delle città che attraversa mentre trasporta dai monti alle pianure le leggende dei popoli. Sui fiumi – il Dnepr, il Don, il Volga, la Moscova e la Neva – scorre la storia della Russia, il suo destino di potenza di terra. Ma il Dnepr più di tutti ha un ruolo sacro, un segreto mistico, un compito religioso. Bisogna seguire ilcorsodeifiumineiduepiùantichidocumenti storici delle genti slave che abitavano quelle terre intorno all’Anno Mille, il Canto della schiera di Igor scritto sui “gramoty”, le strisce di corteccia di betulla bollita nell’acqua, e la
Cronaca dei tempi passati che parte da Noè per arrivare alla fondazione di Kiev, destinata dal principe Oleg a diventare la madre di tutte le città russe. Sono storie di credenze, magie, superstizioni ebattagliechesembranogenerate dal fiume, tra albe sanguigne, nuvole nere, fulmini accecanti, lamenti notturni di belve, mentre il principe Igor che cavalca sulla sella d’oro sente crescere in cuore il desiderio di guerra «e la brama di bere con l’elmo l’acqua dell’azzurro fiume», incurante dei «corvi demoniaci che hanno gracchiato tutta la notte nelle paludi di Plesensk». Prega in ginocchio il Dnepr come un dio possente la bellissima Jaroslavna, giovanesposadiIgorappenacatturato dalle bande mongole deiCumani: «O Dnepr, figlio di Slovuta! Hai attraversato i monti di pietra passando per la terra cumana, hai portato su di te le navi di Svjatoslav. Porta, o signore, fino a me il mio sposo, perché io non gli mandi le mie lacrime sul far del mattino. Bagnerò nella tua acqua la mia manica di seta e al principe tergerò le sanguinose feritesul suocorpopossente».
Questoscrignoditradizione leggendaria tramandata dal Medioevo carica il Dnepr di significati epici che vanno oltre la storia e la geografia e oggi può trasformarlo nel teatro ideale dello scontro tra Russia e Ucraina, tra l’Occidente e il Cremlino. Nessuno sa dove passa realmente la “linea rossa” che Vladimir Putin ha indicato un anno fa come il limite che gli Stati occidentali non devono violare, se non vogliono scatenare «una risposta asimmetrica, rapida e dura» della Russia. Ma idealmente quella linea, in realtà grigio-azzurra e davvero rossastra al tramonto, corre lungo il tracciato del Dnepr. E può darsi che la denuncia americana di una prossima invasione dell’Ucraina da partedellaRussia facciasoltanto parte di una guerra preventiva di propaganda, come dice a Kiev il presidente Zelensky, per «creare panico, mentre la strategia russa è ancora ambigua». E tuttavia nelle cancellerie occidentali si ragiona sull’ipotesi che il Cremlino scelga invece che una vera e propria invasione, un’«incursione limitata», che arriverebbe proprio qui, fino alla riva occidentale del Dnepr, trasformando il Gran Fiume nel nuovo meridiano zero del secolo, il successore del Muro di Berlino come barriera fisica e metafisica della prossima divisione del mondo, la riformulazione conficcata nel terreno e nella storia dei concetti di EsteOveste dellaloropretesa dieternità, mutando ma sopravvivendo e attraversando le epoche. Una scelta di conquista e di difesa – se mai verrà fatta – che affonderebbe nella psicologia popolare, nella memoria patriottica, nella coscienza del divenire storico collettivo, fondendomito erealtàerisalendo su fino alle origini leggendarie della Rus’, lo Stato russo primordiale che nell’incontro tra le tribù dei Poljani di Kiev, gli Sloveni di Novgorod e i Varjaghi scesi dalla Scandinavia prende forma lungo il corso della principale via di comunicazione, di collegamento, di trasporto e di sostentamento dell’epoca: il Dnepr, chepresto sarà benedetto.
In quella stessa nuvola di nebbia e di brina che oggi s’innalza dagli argini del fiume, mille anni fa entrò con la spada, l’ascia e il coltello Vladimir il Sole, Gran Principe guerriero di Kiev che aveva cinque mogli, dodici figli, ottocento concubine in tre città e viveva davanti alla collina sacra di Boricev, dove i contadini adoravano i sei idoli delle tribù intagliati nel legno e piantati nella terra tra gli alberi: Veles signore dell’acqua, Khors dio del sole vecchio, Dazbog figlio di Svarog padrone del cielo, Stribog che comanda il vento, Simargl che amministra il mistero della fertilità, Mokoschesafermarepioggiaetempesta, più il supremo Perùn terribile, dio della folgore e del tuono, l’unico con la testa d’argento, la bocca e i baffi d’oro. Quel giorno, nell’anno leggendario 6496, il 988 dopo Cristo, portarono davanti a Vladimir il fuoco e la croce. Luiavevagiàusatol’acquacomeinganno mentreassediavaCherson,dirottando il canale dal pozzo e prendendo la cittàpersete,eavevasperimentatol’acqua come miracolo, perché appena battezzato recuperò la vista che aveva perso in battaglia. I suoi ambasciatori erano partiti per il mondo cercando non la religione più vera, ma la più bella, e al ritorno gli raccontarono di averla trovata a Costantinopoli,quandodurante la messa ortodossa il tetto della chiesa sembrava aprirsi sotto l’empito dei canti e la salita dell’incenso, e il cielo pareva curvarsi per sfiorare la terra. Adesso, toccava all’acqua del Dnepr convertire in blocco un intero popolo alla nuova fede, per ordine del Gran Principe: «Chiunque, ricco o povero, misero o schiavo che sia, non si presenterà alfiume,eglimisaràavverso».L’indomani i soldati fecero a pezzi gli idoli di legno, gettarono i loro resti nell’acqua «e intanto il diavolo gemendo si allontanava sconfitto, esi dissolse il ricordo di lui con frastuono». Poi tutti entrarono nel Dnepr, alcuni fino al collo, altri fino al petto, una moltitudine senza numero, e mentre sulla montagna rimaneva solitario Perùn,laGraziadiscese sulle sponde del Gran Fiume che la distribuiva imparziale a uomini e donne, cambiando lastoria delle Russie.
È a questa sorgente identitaria di acqua, patria, Dio e trono che allude Putin quando disegna l’interessecomune strategico e geopolitico che lega Russia eUcraina,mapiùancora indica le radici storiche di quel legame, le lingue sorelle, la resistenza all’esercito di Hitler, il triangolo slavo con la Bielorussia, animaecuoredellapotenza sovietica. Per il leader delCremlinorussie ucraini sono «lo stesso popolo nel medesimo spazio storico e spirituale», fin da quando l’antica Rus’era percepita da tutti, nobiltà e popolo, come «un territorio comune,lapatriacomune», con la stessa religione. Non solo: secondo la lettura di Putin il Dnepr divide la storia, perché quando i territori della riva destra rimangono sotto il dominio polacco-lituano «l’oppressione sociale e religiosa si intensifica, mentre le terre sulla riva sinistra conoscono un rapido sviluppo». Ma soprattutto «l’Ucraina moderna è interamente un prodotto dell’era sovietica,sagomatosulle terredell’antica Russia. Un fatto è cristallino: la Russia è stataderubata».Eoggi«icircolidominanti dell’Ucraina hanno deciso di giustificarel’indipendenzadelloroPaese attraverso la negazione del suo passato, riscrivendo la storia e creando un clima di paura con un controllo esterno dello sviluppo militare: oggi il vero patriota dell’Ucraina è solo quello che odia la Russia». Conclusioni di Putin: «Rispettiamo il desiderio degli ucraini di vedere il loro Paese libero, sicuro e protetto, ma la vera sovranità dell’Ucraina è possibile solo in collaborazione con la Russia.
I nostri legami spirituali, umani e di civiltà si sono formati nei secoli, si sono rinsaldati attraverso prove e vittorie, si sono trasmessi da una generazione all’altra. Insieme siamo sempre stati e saremo più forti: perché siamo un popolo». Un popolo con due eserciti oggi contrapposti, l’allerta e le esercitazioni dei 250 mila uomini in armi dell’Ucraina, consapevoli della politica russa del fatto compiuto con l’invasione della Crimea,il sostegno alla rivoltadei separatisti nel Donbass, l’appoggio al dittatore Lukashenko di fronte alle manifestazioni inBielorussia; ei175mila soldati russi portati al confine per premere suitre fronti:l’Ucraina, l’Occidentee infine l’opinionepubblicarussa,sollecitata dall’evocazione simbolica dell’antica Rus’, della città-madre Kiev, dell’eterno Dnepr.
I russi sono abituati al mito che passa, scorre e ritorna nel flusso del fiume. ApartiredalDonedalMedioevo,quando le prime “Cronache” annunciano per l’indomani «un’aurora di sangue con nere nubi che vogliono oscurare i quattro soli e rabbrividiscono lampiazzurri: ci sarà un gran tuono, pioggia di frecce dal grande Don». Quel Don reso universale da Mikhail Sholokov nella distesa perlacea di conchiglie della riva, nella corrente «increspata sotto il vento dallo schiumare di innumerevoli piccoligorghivorticosi».OSan Pietroburgo, quella moderna Atlantide costruita sott’acqua che ha allineato per due secoli i suoi palazzi di granito come una liquida fata morgana pronta a dissolversi per diventare il gran teatro di un esperimento di sovvertimento universale, la rivoluzione. Coi suoi 22 ponti mobili che si alzano aprendosi nelle notti bianche, la capitale è concepita per abbagliare e per soffrire, gemendo d’inverno sotto i ponti. Quelli sui canali, da dove Zinaida Gippius guardava “l’acqua torbida” del febbraio ’17 nascondendosi dietro le persiane, quelli più grandi come il Petrovskij da dove i congiurati gettarono il cadavere di Rasputin in un buco nel ghiaccio, o il Litejnyj sbarrato dai cosacchi a cavallo perimpedire l’arrivoin centrodaiquartieri operai delle donne in sciopero: che scendono sul ghiaccio della Neva immobile e l’attraversano innescando dal gelo il moto rivoluzionario.
Il mito del fiume è letterario, con le poesie di Tjutcev («invano noi seguiamo le acque/ che non ritornano più indietro»), è popolare come il Canto dei battellieri del Volga, è artistico con l’enigma del Chiaro dilunasul Dnepr, il dipinto di Archip Kuindzi dove nel buio spunta incredibile una luminescenza verde sull’acqua, è patriottico quando celebra la battaglia sul Dnepr del 1943, con i tedeschi che fortificano sul fiume il Vallo Orientale per fermare l’Armata Rossa, i sovietici che dopo quattro mesi di offensiva riescono a sfondare la barriera e a costruire teste di ponte sulla riva destra.
Da qui parte l’assalto a Kiev, fino alla liberazionedinovembre,salutataaMosca dalle salve di cannone. Come in un cerchio del tempo l’antica capitale della Rus’si riaccende neisuoiglobi elettrici dei viali, tornanoa correrei tramgialli coi sedili di paglia, dalle terrazze dei giardini rispunta immortale, rallentando nelle sue anse, il «Dnepr intirizzito, ilfiume-vegliardo»diBulgakov,traboccante di luce nella città «che danzava e baluginava nelle notti e al mattino si spegneva, indossando il fumo e la nebbia». Con quella corsa leggendaria il Gran Fiume ha trascinato la storia delle tre regioni che attraversa – Russia, Bielorussia e Ucraina – fin qui, nei suoi 2.201chilometrichenascondonoancora un mistero. Perché mille anni fa, completato il rito del battesimo di tutto il suo popolo, Vladimir il Sole diede ordine di legare l’idolo Perùn alla coda di un cavallo e di trascinarlo giù dal colle versoil Dnepr,mentredodiciuomini lo percuotevano con i bastoni, per oltraggio al demonio. Lo gettarono nelle acquementrelagenteinfedelepiangeva per lui, ma presto si accorsero che non voleva affondare e tutti videro alta sulla superficie, tra i flutti, la grande testa d’argento e i baffi d’oro, intatti. Perùn terribile spariva, affondava e sopravviveva nelle rapide del Gran Fiume come una minaccia eterna e viva di distruzione, custodita nel fondo oscuro delDnepr:fino adoggie per sempre.