Avvenire, 4 febbraio 2022
Le donne dell’architettura
Signe Hornborg è stata la prima donna a ricevere ufficialmente una laurea in architettura, a Helsinki nel 1890. Signe, nata Turku nel 1862, figlia di un vescovo, ottenne il diploma con un permesso speciale, perché le studentesse non erano ammesse al politecnico. Per quanto abbia concepito e disegnato edifici residenziali, la sua firma non appare in calce a nessun progetto.
Centotrenta anni dopo la situazione è profondamente cambiata. Oggi l’architettura è tra le professioni quello in cui la parità di genere non è solo un obiettivo ma una realtà largamente affermata anche se non pienamente raggiunta. Anche per questo si intitola “Buone nuove” la mostra che il Maxxi dedica alle “donne in architettura” – un giro di parole che da una parte evita declinazioni ma allo stesso tempo consente di includere professioni diverse dalla progettazione come la sfera della critica, della ricerca, della teoria.
L’interesse della mostra sta proprio nel suo essere ragionata, arrivando a costruire una vera e propria traccia per una storia – o forse meglio una geografia femminile (non femminista) dell’architettura moderna. Il percorso consente infatti di seguire “l’evoluzione al femminile della professione di architetto” dalle figure pionieristiche di primo Novecento fino alle archistar (la mostra si apre con Zaha Hadid che del Maxxi è stata la progettista, e primo Pritzker Prize donna), dai collettivi multidisciplinari ai grandi studi internazionali guidati da donne. Accanto a nomi acquisiti e che anzi non sono mai stati davvero ignorati, come Charlotte Perriand e Eileen Gray nel campo del design modernista, o Ada Louise Huxtable, che con la sua rubrica sul “New York Times” negli anni ’60 “inventò” la critica di architettura vincendo nel 1970 il Premio Pulitzer, o ancora Lina Bo Bardi e Gae Aulenti, ecco riattribuire il giusto ruolo a figure rimaste schiacciate da ombre maschili: Lilly Reich (Mies van der Rohe), Marion Mahony Griffin (Frank Lloyd Wright), Denise Scott Brown (la moglie di Bob Venturi, con il quale firma Learning from Las Vegas)...
O soprattutto, una serie di figure poco note o dimenticate, come Lotte Stam-Beese, Maria Teresa Parpagliolo, Vittoria Calzolari (autrice del piano per il parco dell’Appia antica), Minette de Silva (primo architetto modernista dello Sri Lanka), Norma Merrick Sklarek, prima afroamericana ad avere accesso alla professione nel 1954. Infine accanto alle grandi firme della contemporaneità (Eli- zabeth Diller, Kazuyo Sejima di Sanaa, Yvonne Farrell e Shelley Mc-Namara di Grafton Architects, Odile Decq, Benedetta Tagliabue...) ecco una ricognizione di figure giovani ma affermate, solitarie o in studi condivisi spesso con i propri compagni di vita – una vera e propria costante storica, da Aino e Alvar Aalto a Franco Albini e Franca Helg, da Alison e Peter Smithson a Lu Wenyu e Wang Shu di Amateur Architecture Studio... Si può concordare con i curatori Pippo Ciorra, Elena Motisi ed Elena Tinacci quando individuano in tre punti gli elementi che emergono da questa ampia ricognizione: «Il primo è il crescente processo di liberazione del mondo professionale dell’architettura da pregiudizi e abitudini che spesso hanno frenato l’affermazione delle donne e di altri soggetti “nonstandard” (collettivi, coppie, formazioni aperte). Il secondo riguarda l’impressione che l’allargamento della platea professionale nel senso della gender equality contribuisca positivamente alla capacità dell’architettura di rispondere alle urgenze del presente, soprattutto in termini di sensibilità ecologica, inclusività, sostenibilità sociale. L’ultimo punto, infine, vede l’Italia, dove troviamo molte donne tra i migliori progettisti emergenti (o emersi), come un esempio avanzato di questa trasformazione».
Colpiscono oltre a questi anche altri elementi di carattere generale. Il
primo è la presenza diffusa delle donne lungo tutto l’arco cronologico del moderno. All’interno del Ciam, i Congrès Internationaux d’Architecture Moderne, o del Team X, ad esempio, non mancano le donne. Ma questa presenza se pur centrale non corrisponde mai a un ruolo guida. Allo stesso tempo vengono escluse dalla progettazione “attiva” per essere spinte verso attività di teoria e insegnamento. Questo aspetto però non è stato vissuto solo in modo repressivo. Anzi, molte di queste figure, come Jane Jacobs o la stessa Denise Scott Brown, hanno saputo costruire edifici forse non materiali ma certamente solidi e forse anche più longevi di quelli eretti fisicamente dai colleghi, spostando la “pratica architettonica” sul piano politico e sociale. Dunque, se donne ci sono sempre state, almeno dal Novecento, il problema sta nel vederle e valorizzarle. Allo stesso tempo è però interessante quanto afferma Beatriz Colomina (ordinario di Storia dell’archittettura a Princeton) in una delle videointerviste che costituiscono una delle sezioni della mostra. Colomina sostiene che più che a una questione di genere siamo di fronte a un problema di autorialità. Il cambio di visuale richiesto non è da una visione dell’architettura come professione maschile a una femminile, ma dal pensare l’architettura come opera di una singola figura eroica, propria della narrazione della storia dell’architettura, a riconoscerne la dimensione collaborativa e collettiva, proprio come in un film. L’errore è quindi sostituire la donna all’uomo, replicando i parametri interpretativi, ossia eroicizzare l’architetta. Qualcosa che accade piuttosto di frequente nella pubblicistica. In questo senso, la parità di genere è totale.