Corriere della Sera, 3 febbraio 2022
Biografia di Pietro Paolo Virdis raccontata da lui stesso
Pietro Paolo Virdis, da Sassari, classe 1957. La biografia calcistica, copiosa e gloriosa, contiene un dato eclatante: 24 rigori tirati, 23 realizzati. Nervi e coraggio. Con una predilezione alla solitudine?
«Il coraggio di affrontare una responsabilità penso di averlo avuto sin da ragazzo ma non credo che calciare davanti al solo portiere denoti particolare audacia. Piuttosto, per un attaccante, avere la possibilità di affrontare un unico avversario e non undici mi è sempre sembrata una bella opportunità. In aggiunta, sto parlando di qualcosa che sembrava sintonizzato sulla mia natura. Però non mi considero un solitario. Il rigore, in fin dei conti, è un’occasione da sfruttare, applicando un talento».
«Il gusto di Virdis» è il nome del suo ristorante-enoteca a Milano. A proposito di gusti: qual è la ricetta per vivere in pace?
«La ricetta richiede un lavoro continuo su te stesso, sulle qualità come sui difetti. Il che può dare momenti di serenità. Ma non è mai finita. Alti e bassi. Io sono sulla strada, resto in campo, c’è sempre da migliorare».
Che poi, il vero bomber del ristorante è Claudia, sua moglie...
«Assolutamente sì. Senza di lei questo progetto non sarebbe nato. Ha svolto ogni pratica burocratica all’inizio e poi si occupa della cucina sin dal primo giorno. È grazie a lei che le persone escono sazie e contente dopo essere arrivate affamate. Io cerco di assisterla, di fare del mio meglio con i vini ma il nome del ristorante dovrebbe essere Il gusto dei Virdis, plurale. Come minimo».
Una famiglia come una squadra. Eppure di dice che un attaccante deve essere egoista. È un luogo comune?
«Mah, anche se parliamo di calcio, non credo che l’egoismo sia totalmente dominante. Il grande attaccante è anche quello che fa crescere un intero gruppo, quindi non penso debba guardare troppo se stesso, con la fissa di fare gol. Certo, è quello lo scopo principale, da lì viene una consacrazione. Facciamo così: 80% egoismo, 20% altruismo».
La frase «Ama e servi tutti» cosa le fa venire in mente?
«Un principio. Complicato e bellissimo quando si riesce a metterlo in pratica. Rimanda al predicatore indiano Sai Baba. Negli anni Novanta mia moglie ed io leggemmo di lui, ci incuriosì. Decidemmo di andare in India per vedere se i racconti su quell’uomo capace di fare tanto e bene per gli altri corrispondevano a verità. Beh, era tutto vero. Cominciammo a seguire i suoi insegnamenti. E di comportarci di conseguenza. La frase che ha citato è una sintesi esauriente. Indica un modo di stare al mondo che corrisponde ad una aspirazione».
Disse no alla Juve nel 1977, come aveva fatto il suo mito e compagno di squadra a Cagliari, Gigi Riva, nel’ 73. Lui rimase, lei si convinse a partire. Pentito?
«Dovetti accettare di trasferirmi a Torino. Venivo da una mancata promozione in serie A e desideravo riportare in alto quella squadra. Avevo vent’anni ed era il mio sogno, alimentato anche da quanto aveva fatto Riva. Avrei voluto emularlo. Ma Gigi Riva era Gigi Riva, io ero un giovane che si affacciava sul palcoscenico e a un certo punto dovetti cedere. Non mi trovavo nella condizione di rifiutare e temevo di dover smettere di giocare. Forse avvertivo che avrei avuto qualche difficoltà nella Juve, anche se il mio non era un no diretto a quella squadra, era semplicemente un sì al Cagliari. Mi sarei comportato allo steso modo dovendo partire per Milano o Bologna. Pentito: all’inizio certamente, vennero anni difficili. Ma pensandoci oggi credo di aver fatto bene. Il tempo cambia le lenti con le quali guardi il mondo, ti guardi addosso».
A proposito di vini. Particolari e sardi, soprattutto. La scelta indica una restituzione, una radice. Il legame con la propria terra non si spezza mai?
«Certo. L’amore per la Sardegna è profondo ed è aumentato nel tempo a causa della lontananza. Cerco di ricambiare ciò che ho ricevuto dai luoghi dell’infanzia con intensità crescente. In cantina tengo prodotti provenienti da tutta Italia ma cerco sempre più di promuovere vini della mia regione d’origine. Che sono molti e di straordinaria qualità».
Meglio un cliente-tifoso o un cliente che non la costringe a ricordare e raccontare?
«Ma no, è sempre un piacere incontrare chi domanda di una partita, di un gol, di un giocatore. Finisce che si parla di momenti che furono gioiosi anche per me. Per fortuna sono molti ed è bello condividerli con gli altri».
Voglio diventare un calciatore: è il sogno di molti ragazzini. Come realizzò il suo?
«Non ho un ricordo preciso, un momento chiave. Penso sia stato un desiderio cresciuto lentamente, dentro di me, mettendomi alla prova, giocando all’inizio con i mei compagni di scuola nel campetto sotto casa e poi nelle squadre giovanili. Non ho mai detto o pensato: devo diventare un campione. Preferivo fare i conti con quello che avevo davanti, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Con un amore, questo sì, per il calcio, per ciò che cercavo di fare. All’età di 13 anni mi fecero giocare con quelli di 15, poi con quelli più grandi quando avevo compiuto i 16. E a 17 anni mi chiamarono in serie A. Tappe e crescita. Senza mai pensare: ecco sono arrivato dove desideravo».
Passione e divertimento. Poi il calcio diventa una professione. Cosa serve sapere quando tocca fare sul serio?
«Questo è un aspetto che impari a conoscere presto: cresce l’interesse per ciò che fai, aumentano le pretese. Ti accorgi che non si tratta più soltanto di un passatempo da condividere con gli amici. Per me la crescita è stata lenta ma poi, quando ho raggiunto un livello più alto, ho subito compreso che si trattava di una professione, con tutto ciò che questo comporta. Del resto, vieni ingaggiato e poi piazzato in campo per svolgere un compito. E tutto ciò comporta una responsabilità e quindi uno stress da prestazione. È così per ogni lavoro».
Due scudetti e una Coppa Italia vinti con la Juve tra il 1978 e il 1982, uno scudetto, una Supercoppa italiana e una Coppa Campioni vinti con il Milan tra il 1988 e il 1989. Di cosa è fatta una grande squadra?
«Dalla stoffa, in primo luogo, di ogni singolo giocatore. E poi da una condivisa, comune mentalità votata al raggiungimento del risultato. Può anche non esistere armonia tra compagni fuori dal campo se poi scatta qualcosa nell’imminenza e durante una sfida: identica fame, la stessa voglia di dare il massimo. Funzionano da stimolo reciproco e fanno la differenza».
Ha segnato 102 gol. Capocannoniere nel 1987. Come mai nemmeno un giorno in Nazionale?
«Forse non ho mai colto il momento giusto per farne parte. C’è sempre stato qualche grande attaccante che ha occupato il ruolo, chiudendomi la porta d’accesso. Significa che magari non ero destinato o che non sono riuscito ad esprimermi al meglio nei momenti decisivi per indossare la maglia azzurra. Non ho responsabilità da distribuire a qualcuno. È andata così».
Riva e Bettega; Zico e Van Basten. Da quale compagno ha imparato di più?
«Penso di aver preso qualcosa da tutti i campioni che ho potuto osservare da vicino. Anche a questo serve il talento: ad assorbire ogni spunto utile, sin da quando sei ragazzo. Però, se penso ad esempio ai rigori, riconosco di essere cresciuto grazie a Paolino Pulici. Arrivò a Udine per sostituirmi perché mi ero infortunato. Lo tenevo d’occhio mentre calciava dal dischetto. Alzava la testa all’ultimo istante per non dare riferimenti al portiere. Un vero caposcuola».
Grandi calciatori e grandi allenatori, da Trapattoni a Sacchi. Cosa distingue un buon maestro?
«La duttilità. Per fare sì che ogni atleta renda al massimo. Magari basta un esercizio mirato, specifico. Oppure una frase, due parole pronunciate poco prima della partita. In questo era bravissimo Gigi Radice: sapeva trovare un tocco, il discorso perfetto per darti la carica. Ho ricordi preziosi di Nils Liedholm, di Mario Tiddia che mi accolse a Cagliari nell’80 quando chiesi a Boniperti, presidente della Juve, di farmi tornare nella mia vecchia squadra per ritrovare una sicurezza che credevo perduta. Tiddia fu fantastico, seppe guidarmi senza affrettare, senza forzare, ripristinando una condizione mentale perfetta. Tornai alla Juve l’anno successivo e vincemmo il campionato».
Ad allenare ha provato anche lei: tre squadre, cinque anni per poi chiudere con il pallone...
«Mah, forse non ho incontrato le giuste corrispondenze. Fatto sta che è mancato un senso, lo stimolo per continuare».
I suoi figli Matteo e Benedetta preferiscono un padre campione o un padre ristoratore?
«Benedetta non mi ha mai visto giocare, quando è nato Matteo avevo trent’anni e smisi poco dopo. Del loro papà calciatore hanno saputo attraverso gli altri. Mi sa che preferiscono il ristoratore”.
Giorno di chiusura del ristorante: domenica. È un omaggio alla vecchia passione?
«È un omaggio alla famiglia. In questo modo riusciamo a stare assieme almeno un po’».
Meraviglia di fronte al talento di un atleta. Quando è accaduto?
«Accade continuamente. Quando guardo certi gesti di Messi o di Ronaldo. Mi innamorai di Johan Cruijff per la sua velocità, per la capacità di trascinare una intera squadra. Mi ha sbalordito ripetutamente Usain Bolt: fisicità espressa in modo straordinario».
Ma lei, ad un ragazzino, consiglierebbe di giocare a calcio o di studiare enologia?
«Credo che potrebbe fare entrambe le cose. Giocare a pallone e, nel tempo libero, studiare. Energie da accumulare e da sfogare sul campo. Perché no?».