La Stampa, 3 febbraio 2022
Con le babushke che adorano Putin
La vita come un romanzo russo è qua, nell’estremo Nord dell’Ucraina. Il confine è a poche centinaia di metri, oltre una radura innevata e sparute betulle all’orizzonte. Il villaggio di Hirs’k sembra disabitato, sprofondato nel silenzio. Poi una donna sbuca da un cancello di legno azzurro, raccoglie un gatto investito da chissà chi, lo tiene per la coda, è il suo: «Vedi cosa succede a correre?», dice in suržik, un misto di ucraino e russo, e lancia una serie di maledizioni all’animale ormai senza vita. «Lo andrò a seppellire sotto la neve, fuori dal villaggio – spiega “baba” Maria – poi in primavera gli scaverò una tomba». Qui, nei Distretti di Chernihiv e di Sostka, la guerra non potrebbe essere più vicina e, allo stesso tempo, più lontana. La prima preoccupazione è avere un pezzo di pane sul tavolo e abbastanza legna per la stufa.
Come un’insenatura in cui si mescolano le correnti sotterranee di Russia, Bielorussia e Ucraina, qui è impossibile tracciare confini che non siano quelli sulle mappe. Noi e loro è un concetto astratto, tanto che nelle conversazioni il pronome viene usato indistintamente. Noi ucraini, noi russi. Loro, ma loro chi? «Sono nata quando qui era Unione Sovietica – dice – “baba” Maria – se mi chiedete se sono russa o ucraina non so rispondere, che differenza c’è»? Le televisioni trasmettono telegiornali ucraini e notizie da Mosca. «Se dovessero arrivare i soldati come potremmo respingerli, non aiutarli?».
«Pensiamo che ci sia ancora spazio per la diplomazia, ma se la Russia attaccherà, allora combatteremo», ha detto ieri il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. Ma «noi non combatteremo contro i nostri fratelli», dice Svitlana Kobtz, 55 anni. Nei minuscoli villaggi disseminati a Nord, nei distretti di Chernihiv e di Sostka, ci sono pochi uomini, molte babushke sole, donne anziane. I giovani non hanno resistito, e sono fuggiti nelle grandi città, spesso in Bielorussia o dai parenti in Russia. Le babushke sembrano uscite dai romanzi russi dell’800, con i loro platok sul capo, i gilet ricamati, il tè sempre caldo. Come se le avesse disegnate oggi Tolstoj. «Qui la maggior parte delle famiglie ha parenti e amici in Russia – spiega Svitlana -, immagina se li ritrovasse dall’altra parte, definiti come nemici, è impossibile perfino da pensare».
Mentre le truppe russe si ammassano attorno all’Ucraina come una mezzaluna di ferro, i più giovani come Yasnaya, 30 anni, tengono una borsa di emergenza vicino alla porta d’ingresso, pronti a fuggire. Lei, che otto anni fa è scappata dal Donbass, ora è convinta che la guerra l’abbia seguita fin quassù. Il distretto di Chernihiv è il primo che le truppe di Mosca incontrerebbero se decidessero di sfondare il fronte Nord. Ivan, pensionato di 72 anni di Sostka, lo spera, sogna il ritorno dell’Unione Sovietica, dove «c’era lavoro per tutti, e la vita era più facile», siamo lo «stesso Paese», Rus’ kieviana, l’antica federazione slava. La stessa immagine usata da Putin per cancellare l’idea di un’identità ucraina autonoma. Ma Ivan decide che ha parlato troppo. Gesticolando con l’ascia con cui sta spaccando legna stabilisce che non è più tempo per le domande.
Le strade verso la Russia si fanno più bianche e deserte. Come in un sogno, dal nulla profondo appaiono casette di legno dipinte di verde, azzurro, bianco. Poi a Smychyn, spunta un negozio dipinto di rosa, dal quale stanno uscendo Nina Mozol, 53 anni e Valentina Zarubina, 57 anni, con un sacchetto da cui sbucano tre pesci da cucinare per cena. «Questa cosa della guerra…Una guerra non può esistere, siamo Paesi amici, uguali e vicini. Per noi è solo una questione di una bandiera diversa che sventola sulla scuola», dice Nina. I suoi figli sono già emigrati in Bielorussia per trovare lavoro. «Siamo Paese amici», ripete.
La paura di Kiev e dell’Occidente che Putin si possa prendere territori ucraini qui non arriva: «Se spareranno andrò a nascondermi in cantina, e uscirò quando avranno smesso». Una porta di legno color del cielo si spalanca sull’universo di Yevheniya Miksimtes, 85 anni, detta baba Zhenya. Arazzi alle pareti, una stufa di argilla sempre accesa sulla quale si può anche dormire, tovaglie e tende ricamate a mano. Baba Zhenya è sopravvissuta alla Seconda Guerra mondiale, al regime russo, al crollo dell’Unione Sovietica, alla nuova guerra, al lavoro duro nei kolchoz, le «proprietà agricole collettive». Indica le galline nell’aia, si vanta dei fiori del giardino e dei frutti dell’orto, che solo lei può vedere, ora che è tutto coperto di neve. «Ho sopportato molto, sono ancora qui. Che cosa dovrei temere ora?». Superata la prima diffidenza baba Zhenya e la figlia Natalya, che è passata a trovarla, vogliono offrire un tè agli ospiti. Sulla tavola compaiono polpette, pane fresco, miele, “sal” (lardo ucraino), uva, biscotti, cioccolato, cachi appena colti, pasticcio di fegato. Zhenya non smette di scusarsi: «Non aspettavo ospiti, non ho niente da offrire», mentre continua a ripetere «Pyi! Pyi!», bevi, bevi, e versa bicchieri di vodka da bere tutti d’un fiato. «Quelli come me hanno superato molte cose», dice mentre mostra orgogliosa i suoi lavori di ricamo, che riprendono motivi tradizionali ucraini. «Ho nipoti che hanno combattuto nel Donbass, e anche dall’altra parte». Un’altra fetta di “sal”, un altro bicchiere di vodka. «Qualunque cosa succeda rimarrò qui, in questa casa, dove ho passato tutta la vita. Ucraina, Russia, io mi sentirò comunque ucraina, lo sono da trent’anni». «Na zdorov’ya!», salute. È qui, a casa di baba Zhenya, che la vita è come un romanzo, un romanzo ucraino.