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 2022  febbraio 03 Giovedì calendario

Intervista alla nuova direttrice della Biennale

«Il rischio più grande? È che la definiscano la Biennale delle donne. Ma poi, che cosa significa? Per 125 anni non l’avete mai chiamata la Biennale degli uomini!». Tra 11 settimane Cecilia Alemani apre la sua mostra a Venezia. Intanto, inizia a svelarla. Se stiamo solo ai numeri, la cinquantanovesima Biennale d’Arte si annuncia come un kolossal: 213 tra artiste e artisti da 58 paesi, 1433 opere e oggetti, 80 Padiglioni nazionali (esordiscono Camerun, Namibia, Nepal, Oman e Uganda) e la durata più lunga di sempre, oltre 7 mesi, dal 23 aprile al 27 novembre. Il budget è di 18 milioni di euro: «I costi sono lievitati a causa dell’aumento del prezzo dell’energia e dei trasporti – spiega il presidente Roberto Cicutto – Il 20 per cento è già stato coperto dagli sponsor; si punta ai ricavi. Un altro obiettivo è il contenimento dell’impatto ambientale. Adottiamo linee guida per l’eco-sostenibilità». Ma il vero tema è che a Venezia la curatrice Alemani riscriverà la storia dell’arte. Più dell’80 per cento dei nomi invitati a partecipare è donna, o appartenente a un genere non binario. Gli uomini, per la prima volta, sono in minoranza. Ai Giardini e all’Arsenale, si intrecciano al percorso principale cinque “capsule del tempo”: allestimenti negli allestimenti (a cura del duo di designer Formafantasma) che riposizionano la creatività femminile al centro dei movimenti del Novecento, dal surrealismo all’arte cinetica e programmata. Il titolo dell’esposizione, Il latte dei sogni , si deve al libro per bambini della pittrice surrealista Leonora Carrington, che fugge dall’Inghilterra al Messico e attraversa il XX secolo. «L’ho scelta come compagna di viaggio – spiega Alemani, che torna in laguna dopo il Padiglione Italia del 2017 – Un viaggio che si concentra attorno a tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra».
Sembra un progetto molto più ambizioso di quelli visti in passato a Venezia.
«Hoavutopiùtempo perpensareeper studiare. Sonostata nominata a gennaio2020, a marzo èesplosala pandemiaea maggio siè decisodi rinviare la Biennale al 2022. Intanto, il mio progetto iniziale si è esteso. Sono partitadalle metamorfosi, ma poi la mostra è diventata più ricca di stratificazioni e di significati.
L’approfondimento storico è stato complesso,così come la realizzazione.
Eancora non è finita».
Vuole davvero riscrivere la storia dell’arte, spostandola dalla prospettiva maschile?
«Questo lo lascio agli storici.
L’apprezzamentodelsurrealismo femminile non l’ho inventato io: se ne parla da anni. Mi interessano le voci considerate un po’minori: 180 tra artiste e artisti sono presenti per la prima volta alla Biennale. Penso a Dadamaino,aNandaVigo,esponenti dell’arteprogrammata e cineticache nonerano allaBiennale del’66 coni colleghiuomini. Penso alledonne del Bauhaus, delDada. Nonho fattodelle scoperte, non volevo isolare le artiste, le ho riprese e messe insiemealle contemporaneechehanno influenzato».
Diciamolo, gli uomini sono una sparuta minoranza.
«Nei primi cento anni di storia della Biennale,la presenzafemminile arrivava astento al 10 per cento; negli ultimi venti si è giunti al 30. È triste parlarne,eppure persino in un’edizionerivoluzionaria come quelladel2001di HaraldSzeemann le donneeranoappenail20per cento.
Quella dell’arte è stata anche una storia di esclusione. Ma la finalità di questa Biennalenon è il confrontocon l’uomo. Cisono artisteche possonoreggere benissimo da sole. Anzi, l’idea è di andareoltre ildualismouomo/donna che importa poco agli artisti. Questa è unamostrasulpostumano.Nonho escluso gli uomini a priori: li ho scelti quando il loro lavoro creavadegli snodi congruenticon ilpercorso che avevoin mente. Nelle “capsule storiche”, però, l’idea era di restituire spazio ad altre storie.Per il surrealismo nonavrebbe avutosenso inserire Dalí o Magritte».
Non teme il rischio del politicamente corretto?
«Nonhosceltopiù donneperquesto, masono sicurache qualcunolodirà.
Sarebbestato piùpoliticamente correttofare 50e50. E comunquele opereinmostranon lo sono, risulterannomenocanoniche enon mancheràla provocazione: alla fine contaquello che si vedrà».
Quale obiettivo non vuole fallire la sua Biennale?
«Penso soprattutto ai visitatori: è un retaggioche viene dall’esperienza di direzionedella HighLine diNew York, attraversatada 8 milioni di persone.
Vorreichevedesserounagrande mostracome nonsenesono fattein dueanniperla pandemia. Vorreiche ci fosseattenzione per icontemporanei: cisono 80 produzioniassolutamente nuove.Mipiacerebbechele opere di ieri riuscissero a raccontare storie menonoteche purehannoinfluenzato quellocheguardiamo oggi.Una Biennalenon è solo l’esposizione dello status quo ».
Ci sono artiste e artisti da 58 nazioni, un record, eppure non ha potuto viaggiare per la pandemia.
Come si sceglie l’arte via Zoom?
«Avevoungruppodi advisor nelle regionidelmondodovenonsono andatadi persona.Nonho potuto ancorafare unviaggio in Giappone, India,Cina. Cercavoanche in quei paesi artisti coincidenti con il mio percorso.Durante l’apprendimento dal miostanzino nell’appartamento di NewYork, hoavuto l’occasione di conoscere centinaia di artiste e artisti viaZoom.Ci sonostate anche conversazioni intime,con uno strano sensodi intimità da finedel mondo. Da questo dialogosi sono imposte tante domandesullasituazione. Comesta cambiandoladefinizione di umano?
Qualisono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non umano?Qualisono lenostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianetacheabitiamo? Ecomesarebbe lavita senza dinoi? Da qui è nata la mostra».
Gli italiani sono 26.
«Da italiana ho sentito la responsabilità della loro presenza. Oltre alle figure storiche–come CarolRama oMirella Bentivoglio – ho cercato emergenti comeGiuliaCencio DiegoMarcon.Ho dato loro spazio e visibilità. Spero che abbiano possibilità all’estero».
Latitano il mercato e i nomi pop.
«Nonèstata necessariamente una scelta consapevole. Poimi son detta: qua le gallerie si arrabbiano.Mi sono concentratasu artiste che hanno tutte le carte in regola per essere più commerciali,ma cheincredibilmente nonerano mai state alla Biennale, comeNanGoldine LouiseLawler».
Il corpo è al centro della sua ricerca, eppure anche l’arte, posto che la criptoarte sia tale, si sta smaterializzando. Che cosa pensa degli NFT?
«Èunfenomenomoltopopolarespinto dainteressi chenon hannoa chefare con l’arte. Trovo interessantissima la tecnologia del blockchain per gli effetti che potrà avere in tanti aspetti della nostra vita. Manon penso chel’NFT abbiaintrodotto un nuovolinguaggio nelmondo dell’arte come fuper esempiola fotografia: èunmedium dal risultato poco affascinante. Non ci sarà nessunNFT inquestaBiennale.
Almenononcheiosappia( ride) ».
Qual è il rischio più grande che corre la sua Biennale?
«Che si parli solo della prevalenza femminile.Sarebbe come minimizzare. È unamostracosì grande, che racconta storie diverse attraverso una pluralità e una coralità di voci. E poi ci sono i rischi pratici provocati dalla situazione globale: i trasporti bloccati, la carta che non si trova…Vorreiassicurarmi che le opere arrivino sane e salve ai Giardini e all’Arsenale».