la Repubblica, 3 febbraio 2022
Contro il Rinascimento
Ci sono almeno tre ribaltamenti di prospettiva importanti nella presentazione della Biennale Arte 2022 curata da Cecilia Alemani. Si intitola il Latte dei sogni, prendendo a prestito un libro illustrato per bambini dell’artista e scrittrice Leonora Carrington pubblicata in Italia da Adelphi (nella traduzione di Livia Signorini).
Il primo ribaltamento riguarda il Rinascimento. L’epoca mitica il cui mito viene usato e riattribuito (spesso a vanvera) per proiettare su qualcuno o qualcosa una supremazia artistica e culturale dell’Italia. Ecco, se pensiamo al Rinascimento come all’epoca di interezza dell’essere umano, come lo stare maschio nel cerchio e nel quadrato allora, subito, il Rinascimento si rivela come qualcosa su cui riflettere.
Il secondo riguarda un principio di uguaglianza, in un certo senso. Alemani ha scelto 213 artisti e artiste le cui opere compongono e scompongono il corpo mostrando che visti da vicino, o dall’interno, o per porzioni, siamo tutti simili – la pelle è pelle, gli orifizi sono orifizi, i gangli sono gangli. È la pretesa esistenza di una sola rinascimentale forma a creare diversità, sopruso, esclusione. La fine dell’antropomorfismo, così come lo abbiamo immaginato fino a oggi — credit Uomo vitruviano— potrebbe insperatamente condurci a una maggiore uguaglianza. Il realismo è, in fondo, un sottogenere del surrealismo che è la vita non solo umana nella quale siamo immersi.
Il corollario di questa vicinanza che ci accomuna è ancor più entusiasmante dopo due anni di distanziamenti pandemici perché, se i particolari ci rendono più uguali, allora avviciniamoci, avviciniamoci moltissimo.
Il terzo riguarda la decostruzione della linearità del linguaggio. Un linguaggio lineare in un mondo che di lineare ha solo le time-line social (e nemmeno più perché Facebook ripropone i ricordi, come alcuni smartphone d’altronde) non è sufficiente per descrivere o comprendere. Ma come togliere linearità al linguaggio se non la si toglie al tempo? E così la mostra è presentata come transtorica: nelle capsule progettate da FormaFantasma ci saranno piccole mostre di connessione tra artisti e artiste di epoche diverse – il passato nella capsula, il presente fuori la capsula, il futuro in chi guarda – con una prospettiva analogica (l’unica vera prospettiva di indicizzazione alternativa alla cronologia – benvenuti in Virginia Woolf).
Esce in questi giorni per Einaudi Il narratore ferito di Arthur W. Frank (a cura di Christian Delorenzo). Il saggio, prendendo l’abbrivo dal racconto della malattia (penso ai libri di Susan Sontag o Audre Lorde, ma anche al recente racconto per stories di Michela Murgia), cerca di rendere accessibile – chi non è ferito o non si ritiene tale, volta per volta – una trasformazione quasi alchemica, quella del destino in esperienza.
E così la presentazione di questa Biennale prossima ventura, con artisti e artiste che esprimono pezzi, sezioni, tagli, metamorfosi, ricombinazioni e mancanze, corpi migranti e mutevoli, non interi e dunque mancanti, malati dà entusiasmo rispetto a un racconto che muti il destino in esperienza. L’Apocalisse che incombe deresponsabilizzante in un futuro inaspettato, forse scomodo o scomposto ma possibile.
A rifletterci, i ribaltamenti non sono tre. Ma uno in tre stadi, tre livelli, tre tempi – secondo l’arte che si sceglie (macchine, videogiochi, musica) – che rivela quanto la parola post-umano, ancora prima di essere pronunciata sia stata agita. Da sempre. Non riguarda il futuro, ma gli esseri umani. Siamo sempre stati post-umani racconta Cecilia Alemani e, in questo nostro esserlo sempre stati, abdichiamo, finalmente, all’intero come fondazione e obiettivo. In questa Biennale ci saranno paesaggi nei quali i corpi mutano, e spero che tutti, con la forza residua dell’infanzia, riusciamo a saltarci dentro, come fa Mary Poppins con i giovani Banks nei disegni a gesso sul marciapiede.