Forse troppo bello, Matteo? Su quel palco, Fiorello e Amadeus quasi non le hanno ripetuto altro.
«Scusate, non è colpa mia. Ci sorrido. Beh, diciamo che la mia mamma e le mie nonne già quand’ero piccolo non facevano che insistere: “Ma quanto sei bello…”. Sono abituato, però non faccio mica il modello, sono un atleta e per questo mi hanno chiamato a Sanremo. Non gioco a tennis per farmi dire che sono elegante o carino. Poi, che mi dispiacciano certi complimenti no davvero, sarei falso se lo dicessi».
Più difficile stare a Sanremo oppure a Wimbledon?
«Quand’ero in cima alla scalinata, in attesa di entrare, ho guardato il grande schermo con l’orologio e ho cercato di calcolare i battiti del mio cuore. Galoppava tantissimo, più di quando sto per affrontare un grande match».
Risultato del calcolo?
«Sui centoventi battiti a riposo. Poi hanno chiamato il mio nome, sono sceso dalla gradinata e tutto è andato un po’ meglio. Ma avevo addosso un’emozione fortissima e diversa».
Del resto, quel palco è un pezzetto della nostra storia.
«Da piccolo non mi perdevo un Festival, anche se a un certo punto mi mandavano a dormire. Ora, almeno, posso guardarlo tutto».
Cosa le ha detto la sua mitica nonna Lucia?
«Che si ricorda di quando mi spingeva sul passeggino, e che mai si sarebbe sognata di vedermi a Sanremo. L’ho chiesto anch’io ai miei genitori e a mio fratello, tornando a casa dopo il Festival: ma cosa ci è successo? In pochi mesi Wimbledon, il presidente Mattarella, il presidente Draghi, l’Australian Open, Fiorello».
Infatti: cosa le è successo?
«Credo di avere soltanto giocato il meglio possibile a tennis, dove mai avrei immaginato di eccellere così. Mi sento fuori dalla logica: per questo è tutto più bello, anche se impressionante».
Le avrà scritto il mondo.
«Amici, amiche, un uragano di messaggi. Quasi tutti mi hanno detto che la mia emozione è passata nello schermo e ne sono felice. L’ho trasmessa. Senza racchetta è molto più difficile, però è stato bello sentirmi pop».
Quando il tennis la rende davvero felice?
«Quando qualcuno mi dice di essere rimasto sveglio alle quattro di mattina per vedermi giocare, oppure quando mi avvicinano i bambini e cominciano a giocare a tennis per causa mia».
Crede che dopo Sanremo accadrà di più?
«Forse sì. Forse, tre o quattro persone che non hanno mai guardato una partita di tennis, adesso lo faranno».
Stavolta, ovviamente, nessuno l’ha fischiata: ma è così difficile per i tennisti della sua generazione farsi accettare? I mostri sacri vi schiacceranno persempre?
«No, è soltanto una questione di tempo: è un passaggio e passerà.
Anche di Nadal, all’inizio, si diceva: ma guarda questo, gioca con i pantaloncini a pinocchietto… E il pubblico tifava per Sampras, per Agassi, non per i nuovi campioni che pure sarebbero diventati leggenda».
Si ha questa percezione, quando li si affronta?
«Dico di più: io capisco la gente che ama i miti, in campo non provo fastidio. Forse anch’io, se fossi in tribuna, tiferei per loro. Perché tifare Nadal, Djokovic o Federer significa stare insieme ai propri ricordi, vuol dire rimanere attaccati a una parte del proprio cuore. Io lo trovo romantico».
Quanto è vicino il suo primo Slam?
«A Wimbledon era lontano appena due set, e in Australia mi sentivo benissimo. So che quel giorno si sta avvicinando, anche se è davvero impossibile fissare una data. Credo però di essere tra i quattro o cinque giocatori che possono riuscirci».
Ma è più forte Djokovic o Nadal?
«Giuro, non si può rispondere. Del resto ho perso tante volte contro tutti e due… Nadal è un mancino e ti porta dove vuole lui, dandoti l’impressione di lasciarti giocare di più e alla fine ti batte. Djokovic semplicemente ti disattiva, è un grandissimo contrattaccante. Loro due, insieme a Federer, sono i più grandi tennisti di tutti i tempi, atleti sublimi. Basti questo per capire cosa significhi averli di fronte».
Per chi di loro metterebbe la sveglia alle quattro del mattino?
«In vita mia l’ho fatto solo per le partite di Nba. Per dei tennisti, mai».