Avvenire, 3 febbraio 2022
I mafiosi del Nord
«È storia: ogni volta che c’è un evento straordinario, dal terremoto al Pnrr, le mafie intervengono, sono sempre intervenute, perché si tratta di eventi appetibili, occasioni di guadagno». È il preciso allarme del procuratore generale di Bologna, Lucia Musti, magistrato che da più di trenta anni combatte gli affari delle mafie in Emilia Romagna, prima il clan camorrista dei ’casalesi’, poi quelli della ’ndrangheta. Con alcune convinzioni, frutto proprio di tante inchieste. «La storia dell’Emilia Romagna induce a ritenere che le risorse culturali per contrastare le mafie ci siano. Fermo restando quanto accertato dalle sentenze, soprattutto il processo ’Aemilia’, giunto in appello il 17 dicembre 2020. Effettivamente come ho detto nell’intervento di apertura dell’anno giudiziario ’dobbiamo evidenziare che all’iniziale infiltrazione delle mafie nella nostra regione è succeduto l’insediamento fino all’attuale radicamento’».
Un’analisi che ad alcuni non è piaciuta, ritenendola esagerata. «I critici – risponde il procuratore – portano indietro la storia dell’antimafia almeno di 20 anni. Quando ti dicono una cosa che non è gradita tu cerchi sempre, come prima reazione, di negarla. È un comportamento umano, normale. Poi in certi casi si aggiungono anche alcuni interessi. Ma non si può dire che faccio male all’economia emiliano-romagnola, perché anzi voglio preservare l’economia sana emilianoromagnola».
Ma i fatti giudiziari sono molto chiari. Sempre nella sua relazione il procuratore aveva detto che «è il caso di evidenziare che il Distretto dell’Emilia Romagna è – a buon titolo – un Distretto di mafia, in quanto la Direzione distrettuale antimafia istruisce ’maxi indagini’ e si celebrano maxi processi». E aveva elencato ben otto sentenze passate in giudicato per 416bis, associazione mafiosa, con decine di pesanti condanne. «Penso che dia fastidio alle terre del Nord, che hanno effettivamente una storia diversa da quelle del Sud, che adesso loro sono terre di mafia. Terre di mafia di importazione, prede ambite, ma ormai siamo alla terza generazione di ndranghetisti. Ad esempio nel processo ’Grimilde’ che sto iniziando, c’è il nipote del boss Nicolino Grande Aracri». Sempre nella relazione aveva spiegato che «si tratta di una complessissima indagine, ulteriore espressione di Aemilia, con protagonista sempre la famiglia Grande Aracri, ancora una volta espressione dell’elevato grado di imprenditorialità che connota la ’ndrangheta emiliana, con il coinvolgimento indispensabile dei colletti bianchi e la piena condivisione da parte di personaggi nativi dell’Emilia Romagna nella piena consapevolezza della proficua collaborazione con la criminalità organizzata per la riuscita dei loro affari».
Non solo ’ndrangheta. La dottoressa Musti ricorda che quando era pm antimafia alla Dda di Bologna indagò su Castelfranco Emilia dove i casalesi erano fortissimi. «In un convegno dissi che se si attraversava
il corso principale, su un marciapiede si parlava casalese, sull’altro modenese». Ai casalesi ha reso la vita impossibile. Volevano ammazzarla. Evidentemente l’azione di contrasto aveva funzionato. Ma a preoccuparla è soprattutto l’atteggiamento di alcuni cittadini emiliano-romagnoli. «Se c’è collusione lo potranno accertare solo le indagini», precisa, ma nella relazione aveva sottolineato come «dalla corretta lettura delle indagini e dei processi contro la ’ndrangheta che si sono svolti in Emilia Romagna, è evidente che non è più una questione di presenza di mafiosi, di diffusione della mentalità, ma piuttosto di condivisione del metodo mafioso anche da parte di taluni cittadini emiliano-romagnoli, imprenditori e cosiddetti colletti bianchi, ovverosia professionisti, i quali hanno deciso che ’fare affari’ con la ’ndrangheta è utile e comodo». Così, «alla condivisione è seguita la nascita di un metodo nuovo mafioso autoctono dell’Emilia Romagna, che risente fortemente del territorio altamente produttivo che annovera numerose eccellenze, anche mondiali, che hanno fatto dell’Emilia Romagna una ’preda ambita’».
Combattere le mafie va oltre la lotta ai clan. «Ci impegneremo – aveva detto il procuratore – per una giustizia che avvicini tutti, anche e soprattutto gli ultimi, i sofferenti, i soli, al servizio che noi forniamo, perché trovino in queste aule risposte certe, rapide, soluzioni che contribuiscano a realizzare, in concreto, il principio di eguaglianza». Un impegno che ci tiene a ribadire in questo colloquio: «La giustizia è giusta se veramente riesce ad essere vicina ai deboli, quelli che hanno più bisogno. Chi ha disponibilità di denaro si paga gli avvocati bravi, i consulenti bravi, chi non ha gli strumenti adatti rischia di essere bistrattato. E questo è un ragionamento lontanissimo dalla cultura mafiosa, che è la cultura della prevaricazione, del più forte».