Varie, 3 febbraio 2022
In morte di Monica Vitti
Gloria Satta intervista Giancarlo Giannini per il Messaggero
A casa di Giancarlo Giannini, sulla parete dello studio, c’è una foto incorniciata di Monica Vitti, scattata negli anni Settanta. «È appesa là da un pezzo», rivela il grande attore, 79 anni, «il suo sorriso luminoso e la sua bellezza non convenzionale mi trasmettono allegria». Con l’attrice appena scomparsa Giannini ha girato due film: nel 1970 Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) diretto da Ettore Scola e, nel 1975, A mezzanotte va la ronda del piacere di Marcello Fondato.
Vi eravate conosciuti sul set?
«Sì, mai visti prima. Nel film Dramma della gelosia fui scritturato per interpretare il pizzettaro che contende la fidanzata fioraia Vitti al muratore Marcello Mastroianni. All’epoca facevo Romeo in teatro mentre gli altri due erano delle star del cinema, così fui pagato pochissimo... ma accettai senza pensarci un attimo, sapevo che avrei avuto tanto da imparare».
Quale fu la sua prima impressione di Monica?
«Rimasi piacevolmente spiazzato. Tutti mi avevano detto che era esageratamente perfezionista, competitiva, rompiscatole e invece scoprii una donna simpaticissima, aperta, giocosa che aveva la mia stessa concezione del mestiere, inteso innanzitutto come divertimento. Sul set infatti ce la siamo spassata anche grazie a quel burlone di Scola che durante le scene più drammatiche ci gettava addosso le sigarette accese».
E sul talento di Vitti cosa ha scoperto?
«Che aveva dei tempi scenici straordinari, non a caso si era formata all’Accademia con i giganti del teatro. Mi piaceva anche la sua voce roca: un tempo veniva considerata come un handicap, ma Monica la rese un suo punto di forza insieme alla bellezza non convenzionale».
Sapeva di essere una donna affascinante, dotata di un indiscusso sex appeal?
«Tutt’altro. Era insicura del proprio corpo, aveva molta resistenza a mostrarlo perché lo riteneva imperfetto. Non sarei un gentiluomo se rivelassi nei dettagli le sue ansie in questo senso... Insomma, era attentissima alla sua immagine, se ne preoccupava costantemente».
In che modo?
«Voleva il controllo totale sulle sue foto. Non soltanto pretendeva di approvare gli scatti che sarebbero stati pubblicati, ma per sicurezza arrivava a tagliare con le forbici i negativi di quelli scartati. Credo glielo avesse insegnato Michelangelo Antonioni».
È vero che sul set voleva il controllo dei primi piani per evitare che il suo profilo venisse male?
«Proprio così. Prima di ogni inquadratura faceva un lungo studio con il direttore della fotografia che in Dramma della gelosia era il suo compagno di allora, il grande Carlo Di Palma. Che io ricordi, soltanto Anna Magnani aveva la stessa ossessione di voler mostrare il suo lato migliore».
E sul set di A mezzanotte va la ronda del piacere come andò?
«Ricordo ancora tante risate, c’erano anche Vittorio Gassman e Claudia Cardinale. Ma la mia posizione era cambiata: non ero più schiacciato dai mostri sacri, questa volta facevo un farabutto e trattavo malissimo Monica, bravissima anche nell’interpretare la donna vessata».
Finite le riprese, avete continuato a frequentarvi?
«Tanti anni fa, Monica mi invitò nella sua casa sulla collina Fleming dove viveva con Roberto Russo e mi intervistò per un documentario che volevano girare sulla sua vita. Mi colpì l’affiatamento tra i due, si vedeva che si amavano molto. Poi, si sa, nel nostro mestiere le strade si dividono con facilità. Non ci siamo più visti, quindi Monica si è ritirata dalla scene ma io continuavo a pensare a lei con affetto e riconoscenza per le mille cose che, come attore, mi aveva insegnato».
Prima attrice comica in un cinema dominato dai mattatori: secondo lei era consapevole di incarnare una rivoluzione?
«Se fosse consapevole non l’ho mai capito. Ma un fatto è sicuro: la rivoluzione l’ha fatta davvero».
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Federico Pontiggia per il Fatto
Attrice drammatica, perché “se mi si toglie la paura, la nevrosi, l’angoscia, io come faccio ad andare avanti? Se mi ritrovo sono perduta”. Attrice comica, per “ribellione all’angoscia della vita”. In questa confessa dualità, in questa fertile contraddizione ha vissuto Monica Vitti, eccellenza cinematografica irripetibile.
La prima e unica mattatrice del nostro cinema, la voce, anticipata da un Grido doppiato, dell’incomunicabilità di Antonioni, l’incarnazione del male di vivere: “Ora io vi domando: dal momento che, vista da fuori, io sono una privilegiata, ed è vero, godo di agi e di vantaggi, allora perché a volte vivo così male? Colpa mia? Sì. Credo proprio di sì” e l’incarnazione del bello di ridere: chi così comica prima di lei? Oltre il divismo omogeneizzato, seppe domiciliare bellezza e simpatia, fascino e ironia nell’immaginario collettivo. Senza copia conforme: la bellezza sfuggiva ai canoni coevi delle bonone, la simpatia era velata di tristezza, il fascino si nutriva di inquietudine, l’ironia era un salvavita.
Vitti era tanto quel che portava in campo che quanto teneva nel fuoricampo: non era contenibile né definibile, aveva il privilegio della libertà. “Tu chi sei? Boh, sono un’attrice”, sono le generalità rievocate dal bel documentario che per i novant’anni, il 3 novembre scorso, le aveva dedicato Fabrizio Corallo, Vitti d’arte, Vitti d’amore, ma quel “sono” andava coniugato alla Michelangelo: “Antonioni mi ha permesso di essere”. Come nessuna mai, capace di un paso doble, drammatico e comico, recitato a soggetto e senza possibilità di replica altrui: “Perché devo sempre avere bisogno degli altri?”, si spazientiva, ma quanto abbiamo avuto noi bisogno di lei per sentirci più grandi, più bravi, e più internazionali? Il 3 maggio del 1988 la sua fama costò a Le Monde la caduta “in un ignobile tranello”: l’autorevole quotidiano parigino pubblicò con grande rilievo la notizia, invero bufala, del suicidio dell’attrice. L’esigenza di non “bucare” prevalse sulla verifica, ma la fake news non tradì una verità, conservata fino a oggi: “Un’attrice straordinaria – scriveva Le Monde – e, in un certo modo, un mito”.
Il ritiro dalle scene verrà di lì a poco: la sua prima regia, Scandalo segreto del 1990, è anche il suo ultimo film, in tv si spinge fino al 1992 per la miniserie Ma tu mi vuoi bene?. Il resto è amore, Roberto Russo che sposerà in Campidoglio nel 2000 dopo lungo fidanzamento, e malattia, vissuti nell’assoluta discrezione: l’assenza, a patto di essere stati una presenza, non è la fine per un attore, ma l’inizio del mito.
I capelli biondi, la mascella disegnata, la voce inconfondibile, negli ultimi vent’anni l’abbiamo vissuta nel ricordo, meglio, nelle vestigia. “Vis comica pari a Tina Pica” secondo Christian De Sica, “nel cuore di tutti” per Carlo Verdone, “carattere incoercibile” certificato da Sandro Veronesi, “una grandissima conoscenza dell’esistenza” validata da Barbara Alberti, il “Vitti touch” cristallizzato da Enrico Vanzina: hanno ragione le talking heads di Corallo, ha sopra tutto ragione Maurizio Costanzo: “Mi manca molto come peraltro mi manca Sordi come mi manca Antonioni”, perché la mancanza è la proiezione dell’assenza, e Monica ci aveva preparato.
Eterodossa ed eterogenea, ondivaga e imprevedibile, come ribadito in quella gustosa “autobiografia involontaria” che è Sette sottane del 1993, “la regina del cinema italiano” (il ministro Franceschini) chiude un’epoca che già non abitava più, lasciandoci in dote splendidi film, splendide prove, una splendida attrice e i sentimenti, che ricambiamo: “I sentimenti resistono perché sono al di fuori della mia volontà: si ama anche chi non si vorrebbe e quando non si vorrebbe. I sentimenti vanno per conto loro, senza regole, senza tragitti prefissati”. Eccezione culturale, concezione attoriale, educazione sentimentale: è stata tutto questo, e rimarrà.
Dopo il doppiaggio di Dorian Gray ne Il grido, la tetralogia L’avventura, La notte, L’eclissi e Deserto rosso – il suo “Mi fanno male i capelli” chi se lo scorda? – ne fa la musa di Antonioni e il nostro affaccio più bello, e più bravo, sul cinema mondiale. Ma è solo il primo tempo, il secondo è brillante, vivace, e altrettanto gratificante: è La ragazza con la pistola (1968) per Mario Monicelli, è la capricciosa Raffaella nell’Amore mio aiutami di e con Alberto Sordi, è Il tango della gelosia (1981) di Steno e il Flirt (1983) dell’amato Roberto Russo.
Se per Antonioni fu rabdomante di senso, nella comicità non è stata vicaria, non s’è fatta lussare, e sempre ha imposto tempi e modi, prospetti sociologici e prospettive ideologiche, come nel Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) di Ettore Scola: “Oreste, omo del mio destino, io te darò l’oblio”.
Se dovessimo isolarne il tratto, sarebbe forse l’emancipazione: dall’univocità di genere, dall’ineluttabilità di stereotipo, dalla prevedibilità di sentire. Aveva l’aura, Maria Luisa Ceciarelli in arte Monica Vitti, e ha saputo non farla pesare. Perché “i fatti sono presuntuosi, pesanti, invadenti. Le emozioni sono leggere e indipendenti. Ti ballano intorno e sono pronte a distrarsi al primo colore”. Monica Vitti ci ha emozionato. E ancora.
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Goffredo Fofi per Avvenire
Ricordo un’infelice battuta di Pier Paolo Pasolini, quando gli riferirono un’opinione piuttosto banale di Monica Vitti su non so quale importante questione: «Ma che vi volete aspettare da una che si chiama Maria Luisa Ceciarelli? ». Non era degna di lui, che veniva peraltro dallo stesso strato sociale piccolo-borghese. Sì, Monica Vitti si chiamava Maria Luisa Ceciarelli e si cambiò il nome già all’Accademia d’arte drammatica su consiglio di Sergio Tofano di cui era allieva, come era allieva di Orazio Costa, che aveva dell’arte una visione alta e religiosa. Ho avuto la fortuna di intervistarla un pomeriggio intero per L’avventurosa storia del cinema italiano, nel suo appartamento alla Collina Fleming, e al piano sotto abitava Michelangelo Antonioni. Ci eravamo già conosciuti, ma non ricordava molto della cena in trattoria al Tritone, in cui aveva raggiunto degli amici genovesi che erano anche miei amici, e tra loro c’era il grande Lele Luzzati da lei amatissimo, anche perché allieva anche del suo fraterno amico Alessandro Fersen, anche lui genovese. Le dissi che quella sera si parlò molto della rara impresa teatrale di Antonioni, all’Eliseo, che l’aveva vista protagonista del ruolo di Sally Bowles nella versione italiana di I am a camera, che più tardi incarnò Liza Minnelli in Cabaret.
Forse è anche pensando a Sally Bowles che costruirà più tardi il suo personaggio comico-brillante in tante commedie.
I racconti che mi fece dell’incontro con Antonioni, da doppiatrice della benzinaia Dorian Gray nel film Il gridoalla molto avventurosa lavorazione di L’avventura tra le Eolie e in Sicilia, fanno parte della storia del cinema, ché quel film segnò con La dolce vita, l’affermazione a Cannes del nostro cinema come uno dei migliori del mondo. Fellini vinse quel festival, ma L’avventura, capito da pochi, ne fu un contro-canto più intimo, ed ebbe un’influenza vastissima, per il suo linguaggio nuovo, altamente esigente,
da far invidia alla letteratura più esigente (e in molti paragonarono il suo film ai romanzi di Fitzgerald). Rividi “la Vitti” più tardi, e stavolta mi fece entrare per un attimo, al piano di sotto, nella stanza dove giaceva Antonioni, malato di una lenta consunzione senza memoria che fu più tardi anche il destino di Monica, assistita fino a ieri con amore dal suo sposo. Ho visto ahimé nel loro letto di incoscienza sia Antonioni che Lattuada, grazie stavolta all’amicizia della moglie Carla Del Poggio, ammirevole come attrice e come donna. (I tre - Antonioni Fellini Lattuada - dettero molto presto a un’impresa di Zavattini, il film a episodi L’amore in città, tre versioni di un deciso rifiuto o superamento del suo neorealismo...). Della Vitti avevo parlato con Monicelli e altri suoi registi, ed era stato Mario ad aprirle una seconda stagione di enorme successo con il ruolo paradossale della
Ragazza con la pistola, versione al femminile del “delitto d’onore”. Era diventata una dei “colonnelli”, come li si chiamava, della commedia all’italiana e Bernardino Zapponi, sceneggiatore per Fellini, autore di paradossali sex-comedy e mio caro amico (ci univa, anche a Fellini, l’amore per i comici e per l’avanspettacolo) voleva che scrivessimo insieme una commedia tratta da un vecchio e folle film minore degli anni trenta, Turnabout. L’idea era mia, e pensavamo a Monica come protagonista; il progetto le piacque molto ma, come in cinema succede spesso, non se ne fece poi niente. Un’impresa di Bernardino che venne invece realizzata fu la bellissima sceneggiatura di Polvere di stelle, sul mondo dell’avanspettacolo tra guerra e dopoguerra. Ma fu comprata da Sordi, che volle la Vitti come partner ma volle anche essere lui a dirigere, e ne risultò un film purtroppo molto fiacco, nonostante una Vitti più vivace e simpatica che mai.
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Fulvio Fulvi per Avvenire
Difficile spiegare cos’è un’attrice. Le parole possono non bastare. E allora proviamo a ricordare, o a rivedere, un film interpretato da Monica Vitti, la diva antidiva del cinema italiano che da ieri «non c’è più». Facciamo scorrere sullo schermo della nostra memoria uno qualsiasi dei 55 film della sua trentennale carriera. Meglio se L’avventura (1960) o La notte (1961) diretti dal suo pigmalione Michelangelo Antonioni, drammi nei quali sa esprimere con straordinaria naturalezza l’alienazione e l’incomunicabilità di una donna moderna alle prese con rapporti vissuti borghesemente, senza capire «cos’è l’amore». Una Vitti inquieta, nevrotica, introspettiva, solare. Ma rivediamo anche, per piacere, La ragazza con la pistola (1968), di Mario Monicelli, capolavoro della commedia all’italiana, quella non banale, dove una Monica dai capelli neri e scomposti è Assunta, ragazza siciliana sedotta da un giovanotto (Carlo Giuffré) che la fa rapire ma poi, spaventato dall’inevitabile matrimonio riparatore, fugge in Inghilterra per rifarsi una vita. Ma lei segue l’amato con una colt nella borsetta per vendicare il proprio onore, finché però, affascinata dal nuovo mondo che ha scoperto, desiste dal suo proposito di rivalsa e di illibatezza da «donna di marmo», adeguandosi volentieri alla cosiddetta modernità. Brillante, esilarante, simpaticamente cinica. E se ci lasciamo prendere dalla vicenda narrata da Ettore Scola in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) (1970), con la tenera e stralunata Adelaide contesa in un torbido ménage dai proletari ma maschilisti Mastroianni e Giannini, incominciamo a capire quale immenso talento l’attrice romana abbia mostrato anche sul set. E se non siamo ancora convinti di cosa sia veramente un’attrice, ecco
Polvere di stelle (1973), di e con Alberto Sordi, sul teatro di varietà negli anni della seconda guerra, tra momenti di gloria e tramonti di una scalcagnata compagnia. Vulcanica, tragicomica, splendida Monica, anche quando balla, canta e fa duetti da sgangherata soubrette col capocomico Albertone. Chi ha stile come lei non cade mai nel volgare. E che dire di Io so che tu sai che io so( 1982) sempre con Sordi partner e regista? Un marito tradito, un errore e una vita borghese la cui consuetudine stanca. Il film non è granché, troppo riverso sul melenso e la sociologia a buon mercato, ma la Vitti svetta, giganteggia, commuove, anche quando viene sottomessa con violenza inaudita dagli schiaffi del consorte sulla spiaggia di Fregene.
Sapeva far ridere, Monica, anche nelle situazioni tragiche in apparenza. Perché l’essere comica era per lei «un impulso involontario». Può sembrare un giudizio offensivo ma non è affatto così. Ne era convinto Sergio Tofano, che ne scoprì il talento insieme a Orazio Costa.
Decise di fare l’attrice a 14 anni, Monica Vitti, anche per ribellarsi al cliché imposto dall’ambiente borghese della Roma in cui era cresciuta e da quello che volevano da lei i genitori: avere un marito, dei figli, un lavoro sicuro, che non fosse quello del saltimbanco
in gonnella. Fare l’attrice per lei – lo ripeté più volte – era una necessità più che una vocazione, significava inventarsi un’altra persona ogni volta, in teatro o sul set. Un modo per essere libera, vincere l’angoscia della vita che gli si presentava davanti. Viaggiare con la fantasia, cambiare personaggio per appropriarsi di se stessa. Il suo nome d’arte lo aveva pensato seduta al tavolino di un bar, perché Maria Luisa Ceciarelli era troppo lungo da ricordare e forse un po’ ridicolo per un’aspirante diva che diva però non divenne mai, ancorata com’era alla sua semplicità di donna verace. Prima di accedere all’Accademia d’arte drammatica frequentò, appena sedicenne, il Pittman’s di Roma, dove si diplomò attrice nel 1953. E subito ottenne una scrittura per il coro di Ifigenia in Aulide. Ma il suo vero esordio in teatro è, sempre nel ’54, nella Mandragola di Machiavelli dove Tofano la chiamò a ricoprire il ruolo del “Prologo”. E con il grande attore, papà del Signor Bonaventura, recitò anche nell’Avaro di Molière diretto da Alessandro Fersen. Il palcoscenico diventò così per Monica il luogo privilegiato della sua formazione drammatica: sarà, ancora, Madre Coraggionella versione voluta da Lucignani e subito dopo reciterà con Alberto Bonucci in Senza rete e in Sei storie da ridere di Luciano Mondolfo dove svelò le sue doti di attrice brillante e di immediata comunicativa. La vera svolta però arrivò nel 1957 grazie all’incontro con Michelangelo Antonioni, regista già di consolidata fama che le offrì ruoli importanti nei suoi film più intimi e psicologicamente complessi.
Popolarissima anche per le sue apparizioni televisive nei programmi del sabato sera (come non ricordare la sua divertente interpretazione della Canzone dei crauti di Bruno Lauzi), Monica Vitti è stata premiata più volte: sei David di Donatello, tre Nastri d’argento, un Orso d’argento nel 1984 al Festival di Berlino per Flirt di Roberto Russo, e un Leone d’oro alla carriera nel 1995 alla Mostra del cinema di Venezia. Si era ammalata di una grave sindrome degenerativa che la costrinse a lasciare le scene. Prima di ritirarsi per sempre a vita privata si mostrò al pubblico per l’ultima volta nel marzo del 2002, alla prima teatrale italiana diNotre- Dame de Paris di Riccardo Cocciante. Poi, buio totale. E ieri se n’è andata in punta di piedi, a 90 anni. Magnifica signora dalla voce roca e dalla classe immensa. Venerdì in Campidoglio la camera ardente e sabato, alle 15, i funerali nella Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo.
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Mariarosa Mancuso per il FoglioIo non capisco la gente / che non ci piacciono i crauti…”. Non era solo il salto acrobatico: prima l’incomunicabilità alienata (o era l’alienazione incomunicabile?) di Michelangelo Antonioni. Poi la scassata compagnia di “Polvere di stelle”: un film sull’avanspettacolo con i doppi sensi bananieri, dove rubava la scena a Alberto Sordi. Era l’aria stralunata, da “ragazza che cadde sulla terra”, con cui a “Canzonissima” – di sabato sera, negli anni 70 il programma televisivo più nazionalpopolare – cantava “Io non capisco la gente / che non ci piacciono i crauti…”. Crauti poi faceva rima con “bisogna andar molto cauti”, e ci vuole del genio a cantarla senza scoppiare a ridere. Capita di dire, quando qualcuno muore, “non sapevo neanche che fosse vivo”. Monica Vitti era sparita dalle scene una ventina di anni fa, malata di Alzheimer. Finché ha potuto, ha illuminato e reso internazionale il cinema italiano con la sua bravura e la sua bellezza – magari faceva la siciliana gelosa, munita di pistola per uccidere il fedifrago, ma non restava impigliata nella trappola. Per Dino Risi era stata suora cantautrice, hostess in preda al panico e suonatrice di piatti in un’orchestra, costretta a portare avanti e indietro da casa la custodia con lo strumento. Era una grande attrice comica, dove “comica” sottolinea il lavoro di precisione che serve per fare ridere. E per sfatare il luogo comune, secondo cui il mestieraccio sarebbe riservato, semmai, solo alle donne brutte. La carriera sarebbe quindi preclusa alle bionde sexy. “Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)” ha il più bel titolo inglese che commedia all’italiana possa sognare: “The Pizza Triangle”. Diretto da Ettore Scola, vede Monica Vitti divisa tra Giancarlo Giannini e Marcello Mastroianni. Il triangolo non finisce benissimo, allora nei film poteva succedere, e capitava anche che una donna prendesse gli schiaffi. Da Alberto Sordi per esempio, in “Amore mio aiutami”. Ora che lo sapete, dimenticate subito l’informazione. Meglio tenere certe cose segrete e godersele da spettatori adulti. Un po’ carbonari. Soprattutto, spettatori in grado di riconoscere la satira e distinguere i generi cinematografici (tutta gente, poi, che quando vede la sfilata di forche per l’impiccagione nella serie “The Handmaid’s Tale” si felicita per il conquistato femminismo).