Corriere della Sera, 2 febbraio 2022
Marta Albertini racconta la sua famiglia
Gli uomini certo. Giganti. Basta solo nominarli. Lev Tolstoj, il grande narratore. Poi Luigi Albertini, leggendario direttore del «Corriere della Sera». Giuseppe Giacosa, il librettista di Giacomo Puccini. Figure luminose che hanno intrecciato destini e famiglie, attraversando la storia dolorosa di Ottocento e Novecento, sperimentando successi e tragedie. Hanno lasciato eredità importanti, testimonianze di genio e talento. Ma c’erano anche le donne. Non completamente nell’ombra, perché certe personalità riescono comunque a farsi largo nella storia. E chiedono di essere raccontate. Fa proprio questo Marta Albertini nel suo libro: sottolinea i caratteri, le avventure, le vite di tre protagoniste formidabili. Sof’ja (Sonja) Andreevna, Tat’jana L’vovna Tolstaja, Tat’jana (Tanecka, Tanja) Michajlovna Suchotina. E cioè la bisnonna, la nonna e la madre dell’autrice di Una genealogia ritrovata (Vita Activa Nuova).
Avvincente come un romanzo russo, documentato come un saggio storico, sincero come un’autobiografia senza filtri, drammatico come una cronaca della rivoluzione d’Ottobre, aristocratico come un racconto francese. Ha tante anime questo libro arrivato in un anno fuori dal comune per la dinastia degli Albertini, dopo il romanzo Una famiglia straordinaria di Andrea Albertini (Sellerio) e il memoir di Andrea Carandini (figlio di Nicolò Carandini, primo ambasciatore a Londra della Repubblica italiana, e di Elena Albertini), L’ultimo della classe(Rizzoli). Ora arrivano le donne. Coraggiose, appassionate, cosmopolite.
Un passato ad aggettivi alterni. Dorato, disgraziato, principesco, affamato, sicuramente insolito. Vissuto tra la meravigliosa tenuta di Jasnaja Poljana e Mosca, poi Parigi e Roma. L’autrice (l’ultima a poter testimoniare di aver vissuto con una figlia di Tolstoj) ricostruisce le vicende delle sue ave («avevano scelto inconsciamente – o forse no – di stendere un velo sul passato») portandole alla luce dopo anni di ricerche, di scoperte, di viaggi per il mondo, di letture dei diari e della corrispondenza, dopo ore trascorse negli archivi, in particolare quello del Museo Tolstoj di Mosca. Ne escono così, vividi, i ritratti e le parole di tre donne (e non solo). La bisnonna, instancabile e fondamentale presenza di casa Tolstoj, custode «del prezioso universo di Lev nei primi anni di terrore che hanno contrassegnato la rivoluzione bolscevica». Soprattutto l’amatissima Babuška (nonna) Tat’jana, figlia prediletta dei Tolstoj. Nata nel 1864, trascorre la sua placida infanzia a Jasnaja Poljana e Mosca. Fin dall’adolescenza scrive il suo diario, come è uso in famiglia. Sua madre, Sof’ja, cerca di proteggerla dalla rigida e ingombrante influenza del padre. In una lettera, confida: «Tat’jana è ansiosa, malinconica, sogna tante cose ma suo padre è implacabile». Aggiunge l’autrice: «Leggendo le molte pagine che mia nonna ha scritto per “dipanare” il groviglio delle sue emozioni, ho scoperto una mancanza costante di fiducia in sé stessa, l’incessante ricerca di armonia unita al desiderio perpetuo di stima da parte del padre». Fino allo scontro. Il 14 novembre 1899, Tat’jana sposa Michail Suchotin, che ha quattordici anni più di lei e sei figli. I genitori non approvano. Ma la pace torna quando nel 1905 arriva la piccola Tanecka. Peccato, è un’armonia che dura poco. Nel 1910 Tolstoj muore. Nel 1914 si spegne anche Suchotin. Le donne Tolstoj, all’arrivo della rivoluzione, si ritrovano da sole.
Sono anni difficilissimi. Sof’ja cerca di salvare il patrimonio letterario del marito (morirà nel 1919), Tat’jana e la piccola Tanecka affrontano gli inverni russi tra gli stenti: nel 1921, con la tenuta di Jasnaja Poljana nazionalizzata, madre e figlia si spostano a Mosca. «Viviamo nella sporcizia e mangiamo una sola volta al giorno, talvolta una pietanza soltanto». Ed è qui che il libro di Marta Albertini comincia a seguire la giovane Tanja, brillante, curiosa, appassionata. Frequenta i corsi dell’Accademia d’Arte drammatica, ma ne viene velocemente allontanata a causa delle sue origini. «L’atmosfera diventa sempre più opprimente». Pur non avendo nemmeno un soldo «riusciamo a mangiare grazie ai tagliandi di razionamento». Nel 1925, grazie all’attore di origine albanese Alexander Moissi, le due donne riescono a lasciare la Russia (non senza lacrime e addii strazianti). Eccole allora a Parigi, nella variegata comunità degli émigré russi. Tat’jana si impegna a raccogliere qualche soldo con le conferenze sul padre. Tanja, «figlia ribelle», cerca la sua strada, il sogno resta il teatro. La vita è dura lontano da casa.
E infine – attraverso Piera Giacosa Albertini – arriva l’incontro con Leonardo Albertini, figlio del grande giornalista, con cui l’inquieta Tanja si sposa nel 1930, e dal cui matrimonio nasce Marta Albertini (Tat’jana dopo un lunghissimo viaggiare si ferma a Roma con la figlia). Quelle dedicate alla madre Tanja sono le pagine più intense e delicate del libro, venate di indulgenza per una donna la cui vita è stata segnata dalla nostalgia. Per una lingua, per un Paese, per una famiglia che ha dovuto lasciare.
L’emozione nel raccontare una storia personale; la profondità psicologica che dà rotondità ai personaggi, che ne rivela sfaccettature inedite (come quelle di Tolstoj); l’onestà nel non volere tratteggiare a tutti i costi santini da venerare; il rigore nella documentazione che mostra dettagli preziosi, inaspettati. Come ha scritto Laura Ricci, che ha curato e tradotto il libro (Marta Albertini scrive in francese) «il volume ha il pregio di far rivivere una genealogia femminile a lungo ignorata e, quel che vale ancora di più, di riportarla in vita attraverso le parole delle protagoniste». In pochi casi la prima persona è così autentica ed efficace.