la Repubblica, 2 febbraio 2022
La via italiana alle Grandi Dimissioni
Un milione e 362 mila lavoratori si sono dimessi nei primi nove mesi del 2021. Quasi il 30% in più del 2020, primo anno pandemico, ma anche il 6% in più del 2019, senza lockdown né restrizioni. Cosa succede nel mercato del lavoro italiano? Perché si lascia il posto volontariamente, senza essere licenziati, né pensionandi, né in scadenza di contratto?
Tutto farebbe pensare a scelte di vita diverse, dopo lo stress psicologico e fisico della pandemia: il burn-out, l’esauri mento che brucia le carriere. Ma qui non siamo negli Stati Uniti, dove pure il fenomeno del job quitting o Great Resignation (la Grande Dimissione) c’è ed è vistoso. I dati raccontano un’altra storia. Più che “lascio il posto e cambio vita”, semb ra un “lascio il posto di prima per uno migliore”. Non ci siamo abituati, perché il nostro mercato del lavoro è da sempre tra i più rigidi. Ma con un Pil rimbalzato del 6,5% nel 2021 dopo un tonfo del – 8,9% nel 2020 la mobilità occupazionale tra alcuni settori economici si è fatta sentire anche in Italia. «Non a caso tra i settori al top di dimissioni ci sono costruzioni, manifattura e sanità, tra i più vivaci della ripresa», conferma Francesco Armillei, assistente di ricerca alla London School of Economics e socio del think tank Tortuga, il primo a lanciare il dibattito tra gli studiosi in Italia. L’ultimo suo articolo su lavoce. info «smentisce alcune narrazioni », dice lui. «Non è vero che il fenomeno riguarda soprattutto i giovani, anzi sono gli over 50 i più coinvolti. Non sono le donne a dimettersi di più, ma gli uomini. Non si lascia il posto fisso, il lavoro della vita, ma per lo più contratti a termine. Non sono i laureati a “fuggire”, ma si lascia a tutti i livelli di istruzione. Di sicuro lo stress pandemico ha avuto un impatto, basti pensare al +400% di dimissioni tra medici e infermieri. Ma non è la sola spiegazione ». Il comparto edile, ad esempio, ha visto un boom di chiusure volontarie di contratti: da solo spiega il 28% dell’aumento totale. Ma qui il sospetto è che abbiano pesato più i bonus governativi (l’Ance denuncia da tempo la nascita di «ditte improvvisate») che la voglia di fare impresa.
Ci sono, certo, anche scelte di carattere personale: «Chi ha cercato di mantenere lo smart working, o ha preso in considerazione offerte lontane grazie al lavoro da remoto, mentre prima le scartava perché non voleva trasferire la famiglia», ragiona Stefania Tomasini, senior partner della società di analisi economica Prometeia che con Legacoop ha rilanciato il tema in un recente dossier. Questo turnover è «sano, se assecondato dalla domanda di lavoro delle imprese». A tendere potrà crescere, «considerando gli investimenti in arrivo in digitalizzazione e sostenibilità, che richiedono profili più qualificati». Per questi «c’è una rara occasione di scegliersi il lavoro e ridurre il mismatch tra percorso professionale e impiego», dice Maurizio Del Conte, giuslavorista alla Bocconi di Milano. Il rischio è che sia un lusso riservato a pochi e allora «bisognerà stendere le reti di protezione per i lavoratori più fragili», quelli che non hanno da sfogliare offerte, aggiunge Tomasini. Un fenomeno da monitorare da vicino, dunque, appena i dati permetteranno di descriverlo meglio, per evitare che si trasformi in un boomerang sociale e allarghi la forbice di uscita della pandemia. Per ora, Del Conte smonta la narrazione del “mollo tutto”: «Non siamo di fronte a balzi nel buio per seguire il sogno del chiringuito sulla spiaggia sudamericana. Ma transizioni da un posto all’altro: significa che c’era una buona opportunità occupazionale sul tavolo». D’altra parte, chiosa Del Conte, «in un mercato rigido e avaro di opportunità come il nostro, il salto nel vuoto è una scelta molto difficile che i numeri non ci dicono sia stata fatta». In fondo, non siamo in America.