ItaliaOggi, 2 febbraio 2022
Il salrio minimo blocato da 856 contratti di lavoro
Da tempo l’Unione europea sollecita i 27 paesi membri a introdurre un salario minimo come strumento base di una politica in difesa del lavoro dignitoso, così da tutelare in modo coordinato i lavoratori dalle forme di sfruttamento sia antiche che moderne, dal caporalato agricolo alle piattaforme della gig economy. Attualmente, sono 21 i paesi Ue dove il salario minimo è previsto per legge, ma l’Italia non è tra questi, bensì tra i sei paesi che fanno eccezione, insieme a Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e Cipro.
Stando a un recente studio della Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound), il Lussemburgo ha il salario minimo mensile più elevato (2.275 euro), mentre la Bulgaria ha il più basso (332 euro). In sei paesi, considerati tra i più ricchi in Europa, il salario minimo supera i 1.500 euro: oltre al Lussemburgo, il gruppo comprende Irlanda (1.775 euro), Paesi Bassi (1.725), Belgio (1.658), Germania (1.621), Francia (1.603). Tutti gli altri sono sotto i mille euro, per lo più tra 500 e 700 euro.
In Italia il salario minimo non ha mai incontrato il favore dei datori di lavoro, né quello dei sindacati. Scontato il no dei primi. Quanto ai sindacati, il loro no si basa sul timore che un salario imposto per legge potrebbe addirittura avere effetti controproducenti per le categorie che hanno paghe più elevate, frutto della contrattazione tra le parti e di contratti di lavoro pluriennali. Il risultato, secondo l’ultimo rapporto del Cnel, è una giungla contrattuale: nei 12 settori produttivi principali, i sindacati hanno firmato 60 contratti nazionali, con una copertura dell’89% degli addetti; a questi vanno aggiunti altri 796 contratti pseudonazionali, che riguardano l’11% dei lavoratori, per un totale di 856 contratti. Uno scenario tutt’altro che ottimale.
Decine di indagini hanno accertato che il divario salariale e normativo tra i contratti nazionali e quelli pseudonazionali, firmati dai sindacati meno rappresentativi, è enorme, fonte di squilibri talmente gravi che hanno fatto aumentare, anziché diminuire, il numero dei lavoratori poveri. Da qui l’avvio di un cambiamento di linea politica dell’Italia, dove il ministero del Lavoro, guidato da Andrea Orlando, Pd, sembra deciso a porre fine a decenni di immobilismo su questo tema. Il tutto senza scontri frontali con i sindacati maggiori Cgil, Cisl e Uil, cosa ovvia per un esponente della sinistra, ma con una strategia basata sulle indicazioni più recenti dell’Ue.
L’ultimo consiglio europeo dei ministri del Lavoro ha infatti suggerito un metodo di intervento graduale, che tenga sì conto delle differenze storiche tra i paesi Ue, ma tale da raggiungere alla fine un obiettivo comune. In pratica, ogni paese può stabilire una propria soglia minima per i salari, ma con la libertà di scegliere tra un provvedimento di legge, oppure mediante la contrattazione sindacale.
Per superare le resistenze sindacali, da sempre contrarie al salario minimo per legge, il ministro Orlando sta tentando una via sperimentale, suggerita da un gruppo di lavoro del suo ministero, che ha da poco messo nero su bianco alcune proposte per contrastare la povertà lavorativa in Italia, in attuazione degli obiettivi del Next Generation Eu. In sintesi: chi guadagna meno del 60% del reddito che interessa il 50% dei lavoratori, è da ritenere povero. A conti fatti, tale qualifica riguarda circa un quarto dei lavoratori italiani, soprattutto quelli che lavorano pochi mesi l’anno, a tempo parziale o autonomi. Per consentire a questi lavoratori di uscire dalla povertà, il rapporto avanza cinque proposte, ritenute efficaci solo se applicate insieme. La prima misura riguarda l’introduzione di minimi salariali adeguati, accompagnati da una stretta vigilanza documentale delle imprese e dei sindacati. Le altre misure fanno da cornice alla prima, per assicurarne il successo.
Dettaglio importante: il documento parla in modo esplicito di soluzione ponte, fissando in modo sperimentale minimi salariali per legge, oppure estendendo griglie salariali basate sui contratti collettivi per i settori non coperti. In questo modo la sperimentazione, la cui durata non è nota, potrebbe concludersi con un provvedimento definitivo, condiviso dalle parti sociali. Di fatto, un allineamento a quanto chiesto dall’Ue per dare corpo all’Europa sociale, basata sul diritto al lavoro e sui diritti del lavoro.
Resta da vedere se i maggiori sindacati italiani accetteranno questa sfida, facendosi partecipi di una riforma europea, oppure se continueranno a difendere l’immobilismo con inutili scioperi generali, come quello del 16 dicembre scorso, per giunta divisivo per gli stessi sindacati, con Cgil e Uil a favore, e Cisl contro.