Corriere della Sera, 1 febbraio 2022
Su "Dell’anima non mi importa" di Giorgio Montefoschi (La nave di Teseo)
C’è un giardino, a Roma, nel cuore dei Parioli: è un piccolo giardino, e oltre alle aiuole fiorite vi trovano spazio un nespolo, un mandorlo, un susino, un boschetto di bambù. Ci sarebbe anche lo spazio per costruire un gazebo, dove ospitare colazioni e aperitivi con gli amici di una vita. È il giardino di Enrico e Carla Rubbiani, in cui trovano riparo dalle aggressioni della vita capitolina: qui «non passano più circolari. Le ultime auto corrono disperatamente. L’immenso peso che nelle notti estive senza un alito di vento grava su Roma, quasi fosse una città nel cuore dell’India, sovrasta le finestre accese nei grandi palazzi popolari delle periferie, accoglie i lamenti delle insonnie, e gli incubi, e, solo poco prima che la notte di arrenda, ai più sofferenti concede il riposo, si sta allentando».
L’urlo di questa Roma-Bombay è ricacciato fuori: il portico, la musica dell’orchestra di Santa Cecilia, la biblioteca di casa Rubbiani (dove trovano spazio Stendhal e Mann, Flaubert, Lawrence Durrell e Agostino) sembrano proteggere questa coppia come i bastioni della cultura occidentale ci difendono (o forse ci illudono di difenderci) dai marosi della modernità.
Eppure qualcosa non funziona nell’equilibrio di questa coppia borghese un po’ standard — lei bella quarantenne dedita alla casa e al tennis, lui avvocato di vent’anni più grande, la figlia Maddalena fidanzata con il figlio di una coppia di amici, le vacanze a Sabaudia o in val Gardena, la lettura dei giornali in tarda mattinata e gli immancabili pasticcini del Caffè Hungaria. Tutto comme il faut, dunque? Non del tutto, se nella casa di via Mercati ben presto le parole cominciano a sgretolarsi, a disperdersi lentamente in una serie di frasi fatte, di domande a cui non giunge risposta, di silenzi sempre più prolungati tra Enrico e Carla, e da lunghe, interminabili ore di sonno, mattutino e pomeridiano.
In effetti il sonno sembra essere uno dei protagonisti di Dell’anima non mi importa, il romanzo con cui Giorgio Montefoschi — pur continuando a muoversi nello scenario a lui più famigliare e proseguendo la sua personalissima topografia della borghesia romana — indaga il lato in ombra dell’animo occidentale, i suoi silenzi e le sue lacune: racchiusa nello spazio perfetto e apparentemente circolare che va dalla domenica delle Palme alla Pasqua dell’anno successivo, la vicenda narrata da Montefoschi allude a una spiritualità ancora desiderata (soprattutto da Carla), ma ridotta a frammenti, a riti corrotti. Il rametto di ulivo diventa un elemento decorativo come gli addobbi natalizi, alla messa di mezzanotte meglio non andare date le temperature rigide, la stessa domenica di Pasqua è occasione ormai frusta per un pranzo in giardino con gli amici di sempre. La contingenza ha cancellato lo spazio d’attesa o di ricerca in cui corpo e spirito potevano sfiorarsi, quello spazio che Montefoschi ha raccontato nel suo libro indiano (Il buio dell’India, Guanda, 2016) e che qui, come nel precedente Il corpo (Mondadori, 2017), riduce sempre più i suoi confini.
Le «Confessioni» di Sant’Agostino indicano una strada da percorrere. Ma ogni tentativo di aprire gli spazi oscuri dei corpi a una dimensione più profonda ricade su sé stesso
Per questo, dunque, Enrico e Carla parlano poco e dormono molto: ma lo stesso tempo del sonno è tempo vuoto, che non offre ristoro e nemmeno sogni, solo una condizione di stordimento generale da cui nessuno dei protagonisti sembra in grado di riaversi. Non sarà un caso che l’ultima parola del romanzo abbia a che fare proprio con la stolidità dei personaggi, con una vita strascinata nell’ombra in cui neanche l’adulterio è più forma di protesta o di rottura dell’ordine borghese e capitalista. L’avventura sentimentale che lega per alcuni mesi Enrico alla collega milanese Simona, inizia e finisce senza traumi, e sembra più il tentativo del corpo di affermare la sua supremazia, il suo diritto a dire «esisto» nel momento in cui il suo vigore è stato messo in dubbio da una crisi cardiaca, che non il tentativo di sottrarsi al malcontento, alla noia e alla ripetitività della vita.
Anche l’adulterio, insomma, è appena un sonno senza sogni. Eppure, proprio nel corso di una delle visite clandestine di Enrico a Simona, in una casa sull’Aventino (ecco a cosa si riduce la protesta del protagonista!), Montefoschi pone tra le mani del lettore una delle chiavi del suo romanzo, ed è una chiave che ancora una volta allude al sonno, e lo fa attraverso uno dei libri costitutivi dell’occidente: come nel resoconto petrarchesco della ascesa al Mont Ventoux, narrata nell’imprescindibile Familiare IV, 1, anche qui Le Confessioni di Sant’Agostino indicano una strada da percorrere. È Mario Savignano, professore in pensione e padre di Simona, a leggerne un frammento a Enrico: «Il fardello della vita mondana, come accade nel sonno, mi pesava dolcemente, e i pensieri che ti rivolgevo assomigliavano agli sforzi di chi vorrebbe svegliarsi, ma, vinto dalla profondità dell’assopimento, ripiomba nel sonno». Ma Enrico, che pure si informa su quale sia una buona edizione delle Confessioni e ne ordina una copia, non ne inizierà mai la lettura: quel frammento agostiniano è trascinato via dalla corrente del racconto, non arriva a nulla, non prelude ad alcuna svolta (come invece avveniva a Petrarca in cima al Ventoso). Ogni tentativo di aprire gli spazi oscuri dei corpi a una dimensione più profonda, più duratura, ricade su sé stesso e se talvolta Enrico e Carla saggiano quegli spazi («Tu alla resurrezione della carne ci credi o no?»), nell’arco di poche righe tutto si sfalda («“Sei arrabbiata con me perché non credo alla resurrezione?” prova a farla sorridere Enrico. “Figurati” risponde secca “sto pensando che comincerà a piovere stanotte e noi abbiamo lascito le sedie fuori”»).
Tutto ripiomba nella banale contingenza, e quel giardino che all’inizio sembrava puntellare la piatta quotidianità del matrimonio, inesorabilmente si riempie di erbacce. In assenza di acqua e cure, non serve neanche la grandine montaliana che «fa strage / di campanule, svelle la cedrina». Basta molto meno.