Il Messaggero, 1 febbraio 2022
Intervista al marò Massimiliano Latorre
Nel lungo viaggio in treno tra Trento e Roma, Massimiliano Latorre ha il tempo di ripensare a tutto. A ognuno dei 3638 giorni che ci sono voluti per sentirsi dire da un giudice di essere innocente. «Di non essere un criminale, anzi un terrorista, visto che l’India aveva associato la nostra vicenda ai reati che prevedono anche la pena di morte». Dal 15 febbraio 2012 il marò di Taranto ha sempre declinato gli inviti per le interviste. Niente tv e niente foto in prima pagina. Oggi rompe le righe e racconta: la consegna del silenzio è finita, il Gip di Roma ha scritto su una sentenza che lui e il collega Salvatore Girone non dovranno essere processati. Perché i due marinai italiani, accusati di aver ucciso due pescatori indiani, in realtà non hanno commesso alcun reato. Caso chiuso e indagine archiviata.
Scusi ma perché proprio oggi se n’è andato fino a Trento?
«Non sapevo che oggi sarebbe arrivata la decisione, ero andato a fare un corso, ero fuori da alcuni giorni. Ma appena è arrivata la telefonata sono ripartito».
Cosa ha pensato?
«Non ci ho creduto subito, perché in questi anni tante volte sono arrivate notizie che poi sono state smentite».
L’archiviazione a 10 anni esatti: quanto è stata dura?
«Durissima, in tutto questo tempo la mia vita è cambiata. E di mezzo c’è stato pure il momento terribile dell’ictus. L’archiviazione dopo 10 anni, comunque, non è l’unica coincidenza di questa vicenda, quando siamo usciti dal primo carcere indiano era il giorno del mio compleanno, il 25 maggio».
È questo il momento più bello?
«Uno dei tre più importanti. Il primo è quando il direttore del carcere ci ha comunicato che saremmo usciti, il secondo quando ho riabbracciato Paola, mia moglie: grazie a lei ho avuto la forza di resistere fino a oggi. Non mi aspettavo che la magistratura italiana fosse così celere e per questo ringrazio i magistrati che hanno seguito il caso».
Cosa è successo quel giorno al largo delle coste indiane?
«I dettagli dell’inchiesta verranno fuori con la motivazione della sentenza. Io e Girone facevamo da scorta alla petroliera Enrica Lexie che trasportava combustibile, eravamo partiti in Sri Lanka e non mi ricordo neanche dove fossimo diretti. Mentre costeggiavamo l’India la nave viene avvicinata da un natante, io e il collega siamo stati chiamati a intervenire per respingere questo attacco e lo abbiamo fatto seguendo tutte le procedure. La petroliera riesce quasi subito ad allontanarsi dalla barca e dopo un certo lasso di tempo viene poi contattata dalla capitaneria di porto indiana, che chiede di entrare in porto per riconoscere gli equipaggi che erano stati appena fermati».
E i due pescatori morti?
«Io vengo da una città di mare e per loro umanamente ho sempre provato grande dispiacere. Ma a loro non è successo nulla con noi. Noi non li abbiamo mai visti».
Quando è scattato l’arresto?
«Il giorno dopo alcuni uomini della Capitaneria di porto indiana salgono a bordo e chiedono al comandante di attraccare in porto. Erano armati fino ai denti e ci costringono a scendere a terra. Volevano portarci incappucciati, seguendo la procedura di arresto locale. Ma noi eravamo in divisa e non potevamo accettare questa umiliazione e per questo è stato fondamentale l’intervento immediato del nostro console. Per fortuna siamo scesi senza manette ma subito ci hanno tolto il passaporto».
Poi che è successo?
«Da lì siamo stati in una casetta che loro chiamavano guest house, una specie di pre-carcere, con tutte le restrizioni della detenzione».
Dopo dove vi siete ritrovati?
«Siamo usciti il 3 giugno e siamo stati trasferiti in diversi hotel e ogni mattina avevamo l’obbligo di firma in un commissariato di polizia. Dopo abbiamo cambiato città siamo andati a vivere in ambasciata. Questo è durato fino a febbraio 2013».
Avete mai subito violenza?
«Hanno tentato in ogni modo di umiliarci, ma violenza vera no. Noi non ci siamo mai tolti la divisa della Marina e abbiamo fatto in modo che non venisse offesa».
Vi siete mai sentiti abbandonati?
«Per noi è stato molto importante sapere che nel nostro Paese erano iniziate le campagne per la nostra liberazione. Questo, insieme alla certezza di essere innocenti, mi ha consentito di essere fiducioso e di mantenere la dignità. Quando siamo usciti dal carcere mi sono portato via un sacco pieno di cartoline spedite da tutto il mondo».
A un certo punto rischiavate la pena di morte. Che sensazione si prova?
«Mi sono immaginato sulla forca, sì, perché per come era l’accanimento nei nostri confronti mi faceva pensare che nei nostri confronti la condanna fosse già stata scritta».
Poi è arrivato l’ictus: ha rischiato la vita ma è stata anche la salvezza?
«Certo non è stata la salvezza, perché 10 anni sono stati durissimi, ma quella disavventura ha accelerato il rientro in Italia».
Oggi ha cambiato lavoro: ma si considera ancora un marò?
«Certo, lo sarò per sempre».
Come sono i rapporti con Salvatore Girone?
«Da quando siamo arrivati lo scorso anno abbiamo avuto il divieto di sentirci: faceva parte di un accordo tra Italia e India. Quando c’è stata la sentenza della Corte dell’Aja, che assegnava all’Italia la giurisdizione sul caso, abbiamo riallacciato i nodi della nostra amicizia».
Gli italiani non sapevamo cosa fossero i marò. Siete diventati meme nei social e vi hanno dedicato persino due canzoni. La gente vi riconosce in strada?
«Sì, è bello che ancora tante persone si avvicinano per stringerci la mano e per esprimere solidarietà e apprezzamento».