La Stampa, 1 febbraio 2022
«Così mia figlia è diventata una bulla»
Tutto è cominciato con una chiamata dei carabinieri. La figlia denunciata per un furto di leggings al Decathlon. Mario (nome di fantasia) non riusciva a credere che la sua bambina di 14 anni era diventata all’improvviso «una bulla, che va in giro a picchiare le coetanee. E con altre sei ragazze è a capo di una baby gang. Si fanno chiamare Pr.zz, che sta per Porta rispetto zocc… Una banda che rapina, picchia, pesta, e che può contare su una trentina di gregarie e su circa seicento seguaci sui social», dove le adolescenti pubblicano video e foto dei furti, delle aggressioni e dei momenti di svago, passati a «fumare una canna in centro». È un padre arrabbiato Mario, che ha provato a parlare alla figlia, ma non ci è riuscito. Che si è «sentito abbandonato dalle istituzioni». E così ora va in giro a denunciare la situazione di tanti giovani sui giornali, in tv. Vuole creare un’associazione, «la chiamerò Parent’s gang e ho già aperto una pagina Facebook», per setacciare il web con l’aiuto degli esperti e segnalare le baby gang alla polizia.
Partiamo dal principio. Quando ha capito che sua figlia stava cambiando?
«Sono un padre separato. Un anno fa, in pieno lockdown, non la vedevo mai. Una sera la mia ex moglie mi ha chiesto aiuto perché la ragazza, che aveva 13 anni, l’aveva aggredita in casa, chiamata putt…, ed era scappata. All’una di notte, con l’aiuto della polizia, l’abbiamo trovata a casa dei nonni».
Da lì sono iniziati i problemi?
«All’inizio sembrava ribellione adolescenziale. Poi però sono arrivate le telefonate di madri e padri di suoi coetanei che aveva aggredito ed erano intenzionati a denunciarla. Ho chiesto scusa, ho provato a sistemare le cose, a parlare con lei ma si rifiutava di ascoltarmi. Dopo la chiamata dei carabinieri che l’avevano beccata a rubare abbigliamento sportivo in un negozio ho capito che aveva toccato il fondo. A mia figlia non mancano i soldi, non ha certo bisogno di rubare».
Così ha scoperto che era a capo di una baby gang?
«Le capette sono sette ragazze tra i 13 e i 16 anni che vengono da tutta la provincia: tra loro c’è mia figlia. In comune non hanno neanche la scuola, si sono conosciute in centro a Verona. Seminano il panico, filmano i loro furti, i pestaggi, le azioni violente e li pubblicano sui social dove hanno un grande seguito. Ai gruppi su Instagram e Facebook si possono iscrivere solo i minori di 18 anni».
Che cosa ha fatto?
«Non c’era modo di farla ragionare. Mi sono rivolto a uno psicologo, ho intrapreso un percorso con la mia ex moglie. Mia figlia si è presentata solo alla prima seduta, poi ha smesso di comunicare con me. Ma credo che l’aiuto di un professionista sia fondamentale per provare a uscire da questo incubo».
E ora che rapporto ha con sua figlia?
«Non mi parla, mi scrive ti odio nei messaggi, è arrabbiata perché racconto la nostra esperienza. Dice che è tutta colpa mia. L’altra sera è intervenuta nel corso di un incontro pubblico online a cui partecipavo. Ha preso la parola per dire che sono stato io ad abbandonarla. Mi ha accusato di non darle affetto. Non sono io che ho chiuso i ponti con lei, anzi sto facendo il possibile per tenerli aperti. Non capisce che faccio tutto questo per il suo bene, per provare a salvarla, perché non voglio che rovini la sua vita e quella degli altri».
Ma dopo questa esperienza ha capito che cosa spinge sua figlia e tanti ragazzi alla violenza?
«Il lockdown, tante ore tutto il giorno chiusi in casa e attaccati a cellulari e computer, al web e ai social soprattutto, come Tik Tok, dove circola di tutto e nessuno controlla, hanno avuto un peso enorme. I giovani hanno accumulato tanta rabbia e ora la stanno sfogando in questo modo. Troppi genitori minimizzano il problema ma, mi creda, queste non sono bravate da adolescenti».