Teresa Ciabatti per “Sette - Corriere della Sera”, 31 gennaio 2022
"NON HO MAI DETTO AI MIEI DI ESSERE OMOSESSUALE" - CRISTIANO MALGIOGLIO E LA SCOPERTA' DELLA "FEMMINILITA'": "DEVO RINGRAZIARE CARMEN MIRANDA SE HO CAPITO CHI ERO DAVVERO. AVEVO 11 ANNI QUANDO LA VIDI CON UN CASCO DI FRUTTI TROPICALI IN TESTA - MIA MADRE SI PREOCCUPAVA QUANDO MI VEDEVA PALLIDO. IN REALTÀ ERO STRUCCATO. LA MATTINA MI FACEVA LO ZABAIONE. POI MI CHIUDEVO IN BAGNO A METTERMI IL FONDOTINTA, TORNAVO IN CUCINA E MI GUARDAVA COMPIACIUTA: “HAI RIPRESTO COLORE, VEDI CHE LE UOVA TI FANNO BENE?”. IL PAESE DOVE HO VENDUTO DI PIU? LA COREA DEL SUD..."
«Una ragazza, una bambola» si definisce Cristiano Malgioglio. E ancora: «Da bambino sognavo di fare la soubrette, ci sono riuscito». La libertà di dire tutto questo lui l’ha creata per sé stesso e per gli altri, poiché la sua è stata una conquista collettiva - oggi finalmente riconosciutagli.
Quando al tempo, quarant’anni fa, la Commissione censura bocciava le sue canzoni, troppo scabrose. Quando qualcuno si chiedeva cosa fosse: maschio, femmina, omosessuale, travestito? Lui soffre, resiste. Scrive per Mina, Ornella Vanoni, Iva Zanicchi, altri. Il grande successo nel 1975 con L’importante è finire di Mina.
Seguono altri successi. Poi gli anni difficili, di buio, quindi - grazie a Piero Chiambretti - la rinascita. Oggi Cristiano Malgioglio (merito anche di Carlo Conti e de Il Grande Fratello) è un personaggio popolare e amatissimo - oltre un milione di follower su Instagram, conteso dalle trasmissioni televisive.
A febbraio esce il nuovo disco, Malo, che contiene un duetto con Omara Portuendo, cantante cubana di culto, novantunenne. Malo è un testo contro la violenza sulle donne già cantato da grandi artisti, ma «lasciatemi essere presuntuoso» dice Malgioglio «io sono quello che lo canta meglio».
Perché? «Conosco il significato delle parole. Conosco la femminilità che mi appartiene».
Da dove arriva la sua femminilità? «Da mamma ho imparato a ricamare, da nonna a fare l’uncinetto con cui realizzavo colletti per le bambole».
Niente “giochi da maschi”? «L’unica volta che ho giocato a pallone mi sono rotto una caviglia».
Suo padre le regala il disco di Carmen Miranda. «Io devo ringraziare Carmen Miranda se ho capito chi ero davvero. Avevo 11 anni, vedo l’immagine di questa donna bellissima con un casco di frutti tropicali in testa: ananas, banane. Figurati se in Sicilia, a Ramacca, si trovavano i frutti tropicali. Così mi faccio un casco di pomodori, banane e fichi d’india. Vestaglia di mia madre, scarpe col tacco, casco di patate e ballo Tico tico interi pomeriggi».
Il momento in cui ha detto ai suoi di essere omosessuale? «Mai».
Lo avevano capito? «Camera mia era tappezzata di Marlon Brando, James Dean, Raf Vallone. Mio padre perplesso chiedeva a mia madre: “Perché non appende Marylin Monroe?”».
Risposta? «È piccolo, crescerà».
Invece? «La mia camera oggi è uguale a quella di allora, solo che le foto sono di Channing Tatum che peraltro mi segue su Instagram. Io gli scrivo, lui visualizza, non risponde. Io mi arrabbio, gli riscrivo. Lui visualizza, mette un cuore. Adesso non mi risponde da mesi».
Quindi? «Non gli scriverò mai più. Credo».
Tornando a sua madre. «Si preoccupava quando mi vedeva pallido. In realtà ero semplicemente struccato, ma lei non se ne accorgeva. La mattina appena sveglio mi faceva lo zabaione. Poi io mi chiudevo in bagno a mettermi il fondotinta, tornavo in cucina e lei mi guardava compiaciuta: “Hai ripresto colore, vedi che le uova ti fanno bene?”».
A ventun anni si trasferisce a Genova. «Mia sorella sposa un ragazzo genovese, e vado a vivere da lei. Per realizzare il sogno di cantare sapevo di dover andare al Nord. A Genova per un periodo lavoro in un ufficio postale vicino casa di Gino Paoli. Smistavo i telegrammi, e per lui ne arrivavano a pacchi, peccato che venisse a ritirarli la moglie».
Delusione? «Da ragazzo soffrivo di acne. Passavo molto tempo in casa a ascoltare musica, soprattutto Gino Paoli».
Cosa significava perciò Paoli? «La voce di un amico, l’unico amico».
A Genova conosce Fabrizio De André. «Riesco a sapere dove abita, e mi presento ogni giorno. Suono, apre la cameriera: “Fabrizio dorme”. Il giorno dopo torno. E quella: “Fabrizio è uscito”. Andiamo avanti così per qualche mese, finché non mi apre lui in persona. Mi fa accomodare in salotto, io gli spiego che scrivo canzoni, lui legge i miei testi, dice: belli».
Lo erano? «Orrendi. Credo che all’inizio lui fosse incuriosito dal mio personaggio. All’epoca se ne vedevano pochi come me».
A quel punto? «Grazie a Fabrizio firmo il primo contratto discografico».
Difatti lei compare nel film su De André, «Principe libero». «Mi hanno fatto un metro e novanta, non mi somigliava per niente, ho protestato con Dori Ghezzi».
Col primo contratto nasce Cristiano Malgioglio: testi rivoluzionari e invenzione di un’estetica. «A parte il trucco, sono stato il primo a portare la giacca senza camicia, a petto nudo. Poi, siccome volevo essere altissimo e invece ero uno e sessantasette - con la vecchiaia mi sto rimpicciolendo, ma non mi misuro - e dunque per essere alto mettevo zatteroni di venti centimetri, coperti dai pantaloni a zampa d’elefante. Quando incontro per la prima volta Cher ci ritroviamo vestiti uguali, non si capiva quale fosse la vera Cher. Tutt’e due altissimi, ricci».
Ostacoli nella carriera? «Non so se definirli episodi di omofobia. Di sicuro avevano paura di me. Molti scambiavano l’ambiguità per volgarità. Leggevano nei miei testi ciò che non c’era, al tempo dicevano che il vero titolo di L’importante è finire fosse L’importante è venire . Falso. Mi ha ferito». Si è sentito incompreso? «Per me contava dire che non esiste né maschile, né femminile. È stato sempre questo il messaggio».
Inaccettabile per molti? «In quegli anni andavano canzoni innocue come Finché la barca va , non me ne voglia Orietta Berti. Di sicuro i miei testi erano avanti, parlavano di storie d’amore tormentate e di donne libere che cambiavano amante, prendevano ciò che volevano. Troppo presto».
Conseguenza? «Succedeva spesso che i miei testi venissero bocciati dalla Commissione di censura».
Un testo bocciato? «Tanti. Con mia madre in agitazione: “Che schifezza hai scritto stavolta? Se continui così non diventerai mai Gianni Morandi”».
E lei? «Io sarò Cristiano Malgioglio, rispondevo».
Quanta fatica per essere Cristiano Malgioglio? «Mi bocciarono pure un testo per lo Zecchino d’oro. Una canzone su un gatto e un pulcino, mi pare. I preti sconvolti».
Cosa c’era di scabroso? «Un gatto e un pulcino che andavano al lago. Ma vai a sapere cosa ci hanno letto dietro».
Censura dopo censura lei intanto scrive pezzi meravigliosi per Mina, Patty Pravo, Raffaella Carrà, Iva Zanicchi. «Ciao cara, come stai? cantata dalla Zanicchi vince Sanremo. Era il 1974. E giù mille insinuazioni dei giornalisti che sostenevano che il testo alludesse a una donna che ama un’altra donna».
Alludeva? «Per me non esiste maschile e femminile».
Ma? «Noi, tutti noi, senza etichette».
Il periodo cubano, fine Anni 80. «Arrivo con la canzone Delitto e castigo , e a seguire con Sbucciami . Divento famosissimo, vado in tv. Avevo il ciuffo biondo, un anno dopo, al ritorno, tutti i ragazzi cubani avevano il ciuffo biondo. Mi fermavano per strada per chiedermi il segreto del mio. E io niente: ricetta segreta come la Coca Cola. Mai svelata a nessuno».
Il Paese dove Malgioglio ha venduto più dischi? «Forse in Corea del Sud, l’ho scoperto grazie a una signora coreana che abitava vicino casa mia. Mi ferma e dice: “Da noi sei una star”».
Era vero? «Ho verificato».
Malgioglio ha anche posato per Playboy. «Pantaloni di pelle, fascia sulla fronte, circondato da cinque donne stupende».
Lei doveva rappresentare il maschile? «Ero più femminile io di tutte loro cinque messe insieme».
Perché non da solo allora? «Senza le ragazze sarei stato solo un travestito».
Mai avuto paura di essere «solo un travestito»? «Per anni sono stato guardato in quel modo. I giornalisti, i benpensanti non vedevano altro».
Oltre a scrivere canzoni per grandi donne, lei è stato amico di grandi donne, da Maria Schneider a Sofia Loren. Tutte bellissime e forti. «Volevo essere loro».
Lo è stato? «Lo sono».
Altre figure femminili di riferimento? «A Saint Tropez, durante una serata di gala, mi ritrovo al tavolo con principi, principesse e persone eleganti. Non conoscevo nessuno. Una signora si complimenta con me per il ciuffo, io per cortesia domando: “E lei di che si occupa?”. Quella si alza: “I’m Joan Collins” dice, e se ne va».
Non l’aveva riconosciuta? «Io non riconosco nessuno».
Maria Schneider. «Dopo Ultimo tango a Parigi era caduta in depressione. Per allontanarsi da quel film faceva uso di stupefacenti, fumava. Se le nascondevo l’accendino, piangeva. Gli ultimi anni viveva male, senza soldi. I soli ad aiutarla siamo stati io e Brigitte Bardot».
Un ricordo? «Un capodanno a Napoli, a conclusione di una mia serata di piazza. Compriamo delle ciambelle e ci mettiamo a mangiare per strada. A un certo punto arriva un cane, poi un altro, poi un altro ancora. Alla fine saranno stati quaranta».
E voi? «Li abbiamo sfamati fino alle 4 del mattino. Ricordo indelebile: i botti che scoppiavano nel cielo, le urla della gente. Lontanissimi io, Maria e i cani. Tutti randagi».
Se potesse riportare in vita un amico? «Maria».
Sua madre? «Mia madre è sempre con me».
Il giorno che è morta. «Fin da bambino avevo paura del buio. Dormivo con la luce accesa ovunque mi trovassi. Il giorno della sua morte ho sognato mia madre che diceva: “Spegni la luce prima di dormire”. Da allora dormo con la luce spenta, oscuro persino la lucina della televisione».
Passata la paura? «Sono diventato adulto. Ventisei anni che sono adulto».