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 2022  gennaio 31 Lunedì calendario

Intervista a Paolo De Chiesa

Paolo De Chiesa è la voce dello sci italiano, commentatore tra i più apprezzati della Rai. Quando, per un certo periodo, fu sostituito, sulla Rete spuntò perfino una petizione di protesta. In passato è stato anche un campione, anche se lui non ama la definizione. «Non sono stato un vincitore» rettifica. Sarà, ma entro il 1986 conquistò dodici podi in Coppa del mondo di sci contribuendo così alle glorie della leggendaria Valanga Azzurra, la squadra di sciatori tricolore che fra il 1969 e il 1978 dominò la scena internazionale con 5 Coppe del Mondo assolute, 6 Coppe del Mondo di specialità, 52 vittorie e 162 podi in gare valevoli per la Coppa del Mondo, 5 Coppe Europa assolute, 13 medaglie iridate.
Le telecronache di De Chiesa aiutano lo spettatore a comprendere i gesti degli atleti, godendone. I commenti sono pacati, appassionati ma con misura, del resto a differenza di tanta critica d’arte, musicale anzitutto, che cede alle sensazioni poiché sprovvista di conoscenze, qui entrano in campo le competenze maturate sul campo.
A queste si aggiunge una dialettica sciolta in parte debitrice di studi, in Medicina, protratti fino a 22 anni (l’eternità per un agonista), conta poi l’essere cresciuto in una famiglia colta, papà era Carlo De Chiesa, l’uomo che fece di Saluzzo uno dei centri di odontoiatria di riferimento internazionale.
Pronostici per le Olimpiadi di Pechino (4-22 febbraio)?
«A causa del Covid, non abbiamo fatto i test delle piste, che sappiamo però essere molto belle. Si va a scatola chiusa. Vedremo come sarà il tempo, si sa che su quelle montagnone fa freddo e c’è molto vento, e questo potrebbe rendere difficile le partenze delle discese dall’alto. Insomma, tante incognite».
Cosa prova quando rivede le gare della Valanga Azzurra, le discese di Piero Gros, Gustavo Thoeni, Fausto Radici? Fa confronti con l’oggi?
«Era un’altra sciata».
La gara del cuore?
«La manche di Thoeni ai Mondiali di St. Moritz del 1974, fu un capolavoro in termini di bellezza ed eleganza, una gara esteticamente unica. Detto questo, mi piace commentare le gare di oggi, chi è appassionato vede cose incredibili, sono impressionanti le velocità raggiunte dai nostri atleti».
Come è cambiato lo sci agonistico rispetto ai tempi in cui gareggiava lei?
«È quasi un altro sport. Si parte dalla grande metamorfosi dei materiali e di conseguenza del modo di sciare. La tecnica è sempre quella, ma differiscono le velocità di percorrenza soprattutto in curva, all’atleta è richiesta molta più potenza. E ancora, si è allargata la gamma delle specialità. A imprimere il primo balzo in avanti furono i pali snodati arrivati nell’inverno del 1981-82: stravolsero letteralmente lo slalom. Poi fu la volta delle piastre antivibranti inserite fra sci e attacco, eravamo alla fine dell’epoca di Alberto Tomba».
che non gareggiò con lo sci sciancrato.
«Eh sì, la sciancratura arrivò in gara dopo il Duemila. Fu una rivoluzione. Si passò da sci da 2 metri a 1 metro e mezzo, si affacciava così una nuova generazione di slalomisti, penso anzitutto a Mario Matt. Il gigante rimane la specialità più vicina al modello originario. Però anche lì, ai miei tempi avevamo aste lunghe 2 metri e 13 centimetri mentre oggi si sta sotto i due metri. Diversi i materiali ma anche la tracciatura delle piste che tra l’altro potevano essere un po’ ondulate e generalmente più ghiacciate. O meglio, oggi sono ghiacciate però con il metodo della barratura per cui il ghiaccio è consistente e duro ma consente l’aderenza. Prima era una lastra estremamente liscia».
Lei chiuse a 30 anni ma era un’eccezione, oggi si va ben oltre, gli atleti hanno acquistato in longevità.
«Vero, in compenso a 18 anni per noi era normale essere già pronti, rifiniti, cosa che ora accade raramente».
Marcel Hirscher come si posiziona nella storia dello sci? Possiamo considerarlo il campione dei campioni?
«Io sono allergico alle classifiche, però se vogliamo attenerci a tutti i parametri allora concludiamo che il più grande sciatore di sempre è Ingemar Stenmark. Marcel Hirscher è stato un fuoriclasse, uno che come Tomba, vittorioso anche nella sua ultima gara, ha saputo dare l’addio alle competizioni quando era in vetta. Anche per questo è stato un campionissimo, chiudere da vincenti non è da tutti, però quello del ritiro è un tema che andrebbe sviscerato per bene. Ogni caso è a se stante, in genere molti atleti fanno fatica a individuare la vita dopo lo sci, non sanno proprio cosa fare».
Lei come visse il ritiro?
«Sapevo di essermi aggiudicato dei podi, ma di non essere un vincente. Forse è stata proprio l’onestà con me stesso a spingermi verso una nuova vita professionale che tra l’altro mi piacque da subito. Avevo chiuso con gli studi di Medicina a 22 anni, non mi sembrava il caso di riprenderli a 30 anni suonati: quando avrei iniziato a professare il mestiere del medico? L’idea di rimanere nel mondo dello sci come allenatore non mi allettava. Così iniziai a fare il commentatore di gare per Telemontecarlo lavorando anche per una casa di produzione, che in parte rilevai, per realizzare programmi tv come Pianeta Neve e Pianeta Mare. Avevamo a disposizione strumenti all’avanguardia che consentivano riprese particolarmente innovative. Poi nel 1993 il giornalista sportivo Furio Focolari (celebri le telecronache dedicate ad Alberto Tomba, ndr) mi chiese di andare in Rai. Eccomi ancora qui».
L’amico Fausto Radici quando chiuse con l’agonismo prese in mano l’azienda di famiglia.
«O meglio, chiuse per dedicarsi all’azienda di famiglia: rivoluzionandola. Era sopra tutti noi, sempre più avanti. Lasciò le gare a 25 anni, prevaleva il dovere di occuparsi dell’azienda. Eravamo amici fraterni, frequentavo spesso la casa di Leffe dove si parlava sempre di lavoro (l’azienda supera il miliardo di fatturato, ndr). Ma lui non fa testo, è stato un fuori scala».
Ha messo gli sci al chiodo?
«Assolutamente no. Sciare continua a piacermi, anzi quando viaggio per lavoro porto sempre gli sci con me sperando di farmi qualche discesa. Pratico anche lo sci alpinismo.
I ghiacciai si ritirano. Le stagioni invernali si accorciano. Come vede il futuro dello sci?
«Per natura sono ottimista, ma ammetto che ho un po’ di paura. Sono molto legato alla montagna e veder piovere a Natale ad alta quota mi fa tristezza. Capita che sotto i manti di ghiaccio si rinvengano tronchi di alberi a dimostrazione che un tempo non c’erano ghiacciai in quel punto, me ne parlava di recente un amico meteorologo. Però la cosa preoccupante è la velocità con cui tutto ciò sta accadendo».
Abbiamo atleti, ma anche appassionati dello sci, che si sono formati in comprensori a bassa quota e per questo oggi difficilmente praticabili. Lo sci agonistico potrebbe diventare uno sport per pochi?
«Vedo flussi di appassionati un po’ ovunque. Però sì, lo sci agonistico è diventato molto costoso, costi che aumentano se il comprensorio non è proprio dietro casa. Tante famiglie continuano a crederci e sono disposte a fare sacrifici, perché se hai un ragazzino di 12 anni in una squadra agonistica devi mettere in conto una media di 15mila euro di spese l’anno.
A tal proposito sento di dire che lo sci agonistico chiede dedizione però deve essere anche divertimento, noto invece un’esasperazione eccessiva in termini di gare, bimbi e ragazzi vengono caricati d’uno stress spropositato, così snaturiamo lo sport».
Lei quando e dove iniziò a muovere i primi passi sugli sci?
«Iniziai a quattro anni in un campetto di Cervinia. Ricordo che in una delle mie prime discese caddi perdendo sci, scarponi e persino le calze. Poi ci spostammo verso Sestriere, poiché più vicino a casa. Prima gara a sette anni a Crissolo, ai piedi del Monviso, preparato da Cesco Deflorian. Cesco è stato il mio mentore, colui che mi ha trasmesso questa passione. Mi ha seguito per tutta la vita».
Che dire della nostra squadra femminile. Abbiamo donne strepitose: Bassino, Brignone, Curtoni, Goggia. La valanga rosa travolge tutto e tutti.
«Le donne fanno faville, e sono queste menzionate, però non dimentichiamoci Dominik Paris, atleta che ha fatto cose che neppure Tomba ha realizzato. Dai tempi di Zeno Colò la disciplina regina dello sci è la discesa, e Paris ha vinto sette volte a Bormio e quattro a Kitzbühel, uno che fa queste cose è un dio, un supercampione pazzesco, gli mancano solo le Olimpiadi. Bene il presente, però io guardo avanti: le nostre superstar sono vicine ai trent’anni, e dietro di loro c’è il vuoto. Oggi, per dire, c’è Goggia ma domani chi la sostituisce?».
Dato il vuoto, con che animo guarda alle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026?
«Con preoccupazione. Gli allenatori mi dicono che ci sono ragazzi promettenti, vedo però che non entrano in Coppa del Mondo. Allora? C’è un anello mancante. Speriamo che si compia il miracolo e spuntino nuove stelle per il 2026, ma la vedo dura».
Pur lontani dai clamori della doppietta Tomba-Compagnoni, Sofia Goggia è l’unica sciatrice a bucare lo schermo.
«Quella di Tomba-Compagnoni è stata un’epoca irripetibile, in quegli anni lo sci divenne un fenomeno nazional-popolare, i nostri campioni facevano letteralmente impazzire. Poi non s’è più visto quell’entusiasmo nonostante non siano mancati i grandi, uno su tutti Kristian Ghedina. Del resto, guardiamo alla vittoria straordinaria e recente di Dominik Paris a Bormio liquidata dalla Gazzetta dello Sport con un piccolo trafiletto».
Italia calcio-centrica
«È così. Quest’estate s’è dato risalto ai nostri olimpionici, l’entusiasmo è stato però di corta durata, il calcio è tornato subito a rubare la scena. Ricordo quando nel 2004 Igor Cassina vinse l’oro ad Atene, Tutto Sport lo relegò al fondo pagina dedicando lunghi servizi a un evento marginale che riguardava un calciatore. L’Equipe, il corrispettivo francese del nostro quotidiano di sport, dà largo spazio al calcio che sappiamo essere molto importante anche in Francia, ma senza le nostre ossessioni.
A far notizia sono gli infortuni dei nostri atleti, e negli occhi l’ultima caduta di Sofia Goggia, fra le grandi speranze per Pechino 2022. Oggi ci si infortuna di più.
Un tempo al massimo ci danneggiavamo tibia e perone, oggi il problema ricorrente è la rottura del legamento crociato del ginocchio. Del resto, si tratta di una sciata di grande potenza con uno scarto significativo tra la forza raggiunta dall’apparato muscolare, appunto potenziabile, e i legamenti che non si possono potenziare. È come se montassimo un motore Ferrari su una Cinquecento. Spiace vedere che ne siano colpiti anche gli atleti più giovani, al decollo di una carriera che così conosce i primi stop. Penso alla nostra Laura Pirovano, per esempio, che a una settimana dall’inizio della Coppa s’è rotta il crociato sinistro. Finita la stagione».
Per dire che lo sci ha perso la naturalezza del passato?
«In ogni caso, indietro non si torna. È un po’ come se in Formula 1 volessimo retrodatare le auto. C’è la spada di Damocle che pende sull’atleta, però siamo qui e si va in questa direzione. In compenso, in termini di sicurezza le piste hanno conosciuto progressi incredibili, ci sono protezioni portentose per attutire gli impatti. Addirittura è stato introdotto un sistema di airbag che salva la schiena in caso di caduta, grazie ad algoritmi comprende quando stai per cadere quindi esplode e riduce lo schianto».