il Giornale, 31 gennaio 2022
De Niro scrive a Sorrentino
Sono cinquantuno gli stati membri degli Stati Uniti d’America. Prevedo la smentita: no, sono cinquanta più il distretto di Colombia. Ma Robert De Niro ha scritto una lettera di amore e passione, e forse di interesse, indirizzata a Paolo Sorrentino e alla sua ultima opera cinematografica È stata la mano di Dio, parole mille di affetto ed esaltazione del nostro Paese, di Napoli e poi Roma, siti del film del premio Oscar e dunque celebrazione dell’Italia, di quell’Italia che è rimasta nella memoria dell’attore newyorkese con radici, per parte dei nonni, di Ferrazzano, terra di Campobasso.
Italia cinquantunesimo stato, con la comunità straniera più numerosa, una storia di immigrazione incominciata a metà dell’800 per definirsi negli anni Trenta. Non è più il tempo di pizza, mandolino, mafia e brokkolino, alla voce Little Italy, la stessa nella quale crebbe Bob Milk, come lo chiamavano per il pallore della carnagione. Cristoforo Colombo ha fatto il percorso inverso, gli americani hanno riscoperto l’Italia, non più come i soldati della liberazione, niente più chewing gum e boogie woogie, sbarcano, arrivano, viaggiano da Indiana Jones all’inseguimento di pietre che loro non hanno mai avuto epperò cercano di possedere, dunque l’arte e il cibo, la grande bellezza di città e borghi, il loro Moma da noi è un museo a cielo aperto, senza confine. De Niro spinge Sorrentino dopo aver accarezzato Bernardo Bertolucci in Novecento (era, lui, Alfredo Berlinghieri, il possidente terriero) e Sergio Leone (C’era una volta in America), l’Italia si veste di nuovo, non è terra da liberare, arrivano i nostri è repertorio fumettistico, le legioni americane piazzano accampamenti in ogni dove, Sinatra era mezzo italiano? Dean Martin non si chiamava davvero Gaetano Alfonso Crocetti? E Joe Pesci che roba si porta in quel cognome e Madonna Ciccone e Alfredo James Pacino e lady Germanotta detta anche Gaga che ha scelto di vestire, al cinema, lady Gucci? Tarantino, Coppola, de Palma, Scorsese, Di Caprio e Geraldine Ferraro e Nancy Pelosi, occupanti del torpedone di italoamericani che si ricorda del presepe natale e qui torna scoprendo il senso della vita smarrito nella Grande Mela e negli altri parchi da divertimento americani. C’è quell’America che si era innamorata di Caruso prima e di Pavarotti dopo e, oggi, flirta e sballa con i Manneskin la facciata B, molto yankee, della musica italiana rivista e scorretta. Quello che era stata, sul finire degli anni Cinquanta, l’inizio dell’Americanizzazione dell’Italia ha subito un ribaltamento che ha portato la nostra cultura, le nostre capacità imprenditoriali, operative, lavorative a occupare la realtà sociale americana, uno scambio non più mercantile ma creativo. Se il cinema del dopoguerra, soprattutto con Paisà di Roberto Rossellini, aveva tentato di spedire un messaggio di riappacificazione, il tempo successivo ha ristabilito un rapporto più democratico e di minore soggezione, anzi con una italianizzazione degli Stati Uniti. Loren e Dee Sica, Fellini e Antonioni, sono stati messaggeri della settima arte, la nostra dolce vita è stata esportata a New York, la Vespa di Vacanze Romane resiste a qualsiasi tentativo di imitazione, Fiat ha incontrato Crysler tradotto in Fca, Torino e Detroit in un matrimonio inseguito da sempre.
La commossa lettera di Robert De Niro è una confessione e quasi un pentimento, se è esistita una immagine dell’italiano che furbescamente si arrangia, in una vita elegante però malavitosa, quella appartiene a un passato o trapassato che tutti riteniamo remoto, una camicia bagnata che ci siamo tolti di dosso, il cinquantunesimo stato d’America sa parlare molte lingue e non è più soltanto chiacchiere e distintivo, come urlava proprio Capone-De Niro ne Gli Intoccabili. Verrà Hollywood, verrà l’Oscar, forse la mano di Dio sfiorerà i ricci di Sorrentino, il gigante Netflix prepara la tavola per la statuetta. Crocetti Martin aveva anticipato Sorrentino: «And you’ll sing Vita bella, back in old Napoli, that’s amore».