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 2022  gennaio 31 Lunedì calendario

Morire di fame a Kabul


“Non abbiamo più niente da mangiare. Ho perso mia figlia. Sono stata obbligata a venderla per 30.000 afghani”, si dispera Rokhaya. 30.000 afghani sono circa 250 euro. “Ho appena depositato una richiesta di aiuto ai talebani – continua, agitando le braccia, gridando – ma loro aiutano solo chi vogliono. Ci stanno uccidendo”. La crisi alimentare in Afghanistan è drammatica. In questa domenica di fine gennaio, una folla affamata si è riunita a Herat. Una donna viene fuori dalla mischia con l’hijab strappato e il viso coperto di graffi. Altre donne, avvolte nei loro burqa o niqab, restano intrappolate nella folla. Alcune inciampano, svengono. I bambini piangono. Gli uomini vengono alle mani.
Chi cade viene calpestato. Il 23 gennaio scorso, più di mille persone hanno sfondato il cancello del ministero per i rifugiati di Herat per chiedere aiuto ai talebani, almeno il minimo vitale per sopravvivere all’inverno. Diverse persone sono rimaste ferite. Neanche gli spari di avvertimento dei kalashnikov dei talebani sono riusciti a allontanare la folla. “Il 97% degli afghani ha bisogno di aiuto, ma non abbiamo i mezzi per aiutarli. Su cento persone nel bisogno, abbiamo quando basta per aiutarne dieci”, ha detto un responsabile talebano che ha accolto Mediapart nel suo ufficio, un paio d’ore prima dell’assalto. Assicurando: “La situazione è sotto controllo. Sappiamo come dirigere il Paese”. Il funzionario diceva di riporre le sue speranze nel ritorno degli aiuti umanitari, che si sarebbe discusso nel primo vertice internazionale tra rappresentanti del governo talebano (tutti uomini) e alcuni governi occidentali apertosi lunedì scorso, a Oslo: “Dopo le cose andranno meglio. Certe persone sono sfollate per via della guerra – continuava il talebano – ma la grande maggioranza lo è a causa della crisi economica e l’aumento dei prezzi”. Le scene di caos che si sono svolte a Herat, sotto lo sguardo impotente, se non passivo, delle autorità talebane, descrivono l’abisso di disperazione in cui è sprofondato l’Afghanistan a sei mesi dal ritiro delle truppe statunitensi e dal ritorno trionfante dei fondamentalisti islamici. Da allora nel Paese vige la repressione. In un primo tempo, il regime di Kabul ha preso di mira soprattutto le forze di sicurezza del governo precedente, con un numero imprecisato di esecuzioni sommarie (più di cento a fine novembre solo nelle quattro province, su 34, in cui l’Ong Human Rights Watch ha potuto indagare) e di incarcerazioni. Ora la repressione si sta concentrando in particolare sul mondo dell’educazione e della cultura. Circa 150 testate giornalistiche sono state chiuse e i loro giornalisti arrestati e picchiati. A Bamiyan, la città principale dell’Hazaradjat, provincia del centro dell’Afghanistan famosa per i Buddha giganti distrutti dai talebani nel 2001, gli archeologi afghani, solo una manciata, che facevano del loro meglio per proteggere il patrimonio storico della regione, sono fuggiti. I talebani hanno saccheggiato i loro uffici dopo la conquista di Kabul, il 15 agosto 2021. “I miei colleghi afghani del museo di Kabul, del Dipartimento dei monumenti storici, gli archeologi, molti professori delle università di Kabul e Herat sono in difficoltà. Hanno ricevuto minacce di morte a ripetizione”, riferisce un’ex consulente spagnola del ministero afghano della Cultura. Il 4 ottobre 2021 il ministero dell’Educazione interna ha deciso di invalidare i diplomi di scuola secondaria conseguiti negli ultimi vent’anni e di assumere solo insegnanti che inculcheranno i valori islamici ai futuri studenti.

Nel mirino dei talebani, anche le religioni diverse dall’Islam sunnita: il 5 ottobre scorso, il tempio sikh di Kabul è stato saccheggiato da uomini armati, facendo fuggire gli ultimi fedeli indù e sikh. In questo clima di repressione, il regime “sta dando qualche segno di moderazione per mostrare la sua buona volontà alla popolazione – spiega Karim Pakzad, specialista dell’Afghanistan all’Iris, l’Istituto per le relazioni internazionali e strategiche –, ma non funziona”. I talebani hanno diramato alcune fatwa, dei decreti religiosi. Una di queste vieta ai miliziani di tagliare i capelli degli uomini giudicati non islamici, una pratica in vigore dal 1996 al 2001. Un’altra autorizza le donne a allontanarsi fino a 72 chilometri dal loro domicilio, se accompagnate da un uomo della loro famiglia. Una misura condannata dalla comunità internazionale, ma vista dai talebani come una concessione alle donne, che fino ad ora non potevano neanche andare al mercato da sole. A marzo le ragazze potranno tornare a scuola. La verità è che nel Paese “regna un’atmosfera di paura e terrore”, ha dichiarato Faizullah Jalal, il docente di diritto all’università di Kabul che è stato arrestato l’8 gennaio scorso per aver pubblicato dei commenti critici contro i talebani sui social. Alla repressione, si aggiunge la crisi umanitaria. La brusca interruzione degli aiuti internazionali che mantenevano in vita il Paese e il congelamento delle riserve della Banca centrale afghana da parte degli Stati Uniti (9,5 miliardi di dollari) stanno provocando “una delle più gravi catastrofi umanitarie al mondo” secondo le parole di Martin Griffiths, sottosegretario generale dell’Onu agli Affari esteri. “Il numero di persone che soffre la fame è senza precedenti: 23 milioni di afghani, più della metà della popolazione, non sanno se potranno ancora procurarsi da mangiare – spiega Isabelle Moussard Carlsen, responsabile dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) sul sito Défis humanitaire –. Un bambino su due soffre di malnutrizione. Non ho mai visto nulla di simile”. Nell’ovest dell’Afghanistan, a Herat, la terza città più grande del Paese, detta la “Firenze dell’Afghanistan” per la ricchezza del suo patrimonio architettonico, le persone stanno già morendo di fame. Nei campi profughi, dove si sopravvive in rifugi di fortuna e nel fango, “la situazione peggiora ogni giorno di più”, riferisce un operatore umanitario. Alcune di queste persone si sono ritrovate a vivere per strada a causa della guerra, perché le loro case sono andate distrutte. Altre erano già in difficoltà a causa della povertà endemica dell’Afghanistan. Gli effetti del riscaldamento climatico sono a loro volta devastanti.


Da anni il Paese, essenzialmente rurale, già afflitto da decenni di conflitti e distruzioni, soffre per la siccità persistente. A Herat la disperazione è tale che i genitori non esitano neanche più a vendere le proprie bambine dandole in spose a chi paga pur di non morire di fame, riferiscono diversi testimoni a Mediapart. “Per quanto mi riguarda, non lo farò mai”, osserva Amina, che scosta il burqa per mostrarci i suoi occhi scuri. Amina ha 35 anni e cinque figli, di cui quattro bambine, che ha avuto con un uomo di 45 anni più vecchio di lei. Non voleva sposarlo, ma i suoi genitori non le hanno lasciato scelta: “È malato e troppo anziano per lavorare”, dice. Quindi sta a lei lavorare e occuparsi della casa. Insieme alle altre donne, Amina è seduta per terra davanti agli uffici del ministero per i rifugiati, aspettando che qualcuno la riaccompagni al campo. Dopo giorni di attesa nel freddo, con le temperature che scendono sotto lo zero, finalmente lei e le altre possono ripartire con quel minimo vitale che avevano sperato, fornito dall’Alto commissariato per i rifugiati: coperte per riscaldarsi, secchi per andare a prendere l’acqua al fiume, una pentola, un fornello per cucinare. Amina è arrivata a Herat dopo essere stata mandata via di forza dall’Iran. Mentre Kabul cadeva senza resistere nelle mani degli islamisti, lei e la sua famiglia avevano raggiunto Mashhad, dove vivono alcuni suoi cugini. Era stata felice all’epoca. La giovane donna non parla né in bene né in male dei talebani. Chiede solo di vivere in pace e al sicuro. Il giorno prima, nel quartiere sciita di Herat, un minibus era saltato in aria nell’esplosione della bomba che era stata posta sotto il veicolo. Sette persone avevano perso la vita, di cui quattro donne. Nove erano rimaste ferite.