Corriere della Sera, 31 gennaio 2022
Cni è Joe Rogan
Tutti, o quasi, contro Joe Rogan. Dopo Neil Young, che nei giorni scorsi aveva annunciato l’addio a Spotify, anche Joni Mitchell e Nils Lofgren, cantautore e componente della E Street Band di Bruce Springsteen, hanno deciso di ritirare la propria musica dalla piattaforma di streaming, colpevole di ospitare il seguitissimo e controverso podcast di Joe Rogan e «diffondere così menzogne e affermazioni fuorvianti sulla pandemia», come hanno affermato in una lettera aperta 270 scienziati, medici e ricercatori. Persino il duca e la duchessa di Sussex, Harry e Meghan, esprimono dubbi per la presenza di disinformazione sulla piattaforma, ma per ora intendono onorare l’accordo che hanno firmato per produrre un podcast.
Tutti, o quasi, contro Joe Rogan, quindi. Solo che quello di Rogan – che nel tempo ha scoraggiato la vaccinazione dei giovani, promosso trattamenti non autorizzati contro il Covid, e invitato numerosi esponenti no vax, come la deputata ultraconservatrice Marjorie Taylor Greene – non è un podcast qualsiasi, ma il più seguito sulla piattaforma in tutto il 2021: salta dall’intrattenimento alla politica, dalle interviste ai monologhi, ha una media di 11 milioni di ascoltatori per episodio e, per averlo in esclusiva, Spotify ha pagato 100 milioni di dollari l’anno precedente.
Da allora, però, la piattaforma ha subito prima una rivolta interna, poi quella del mondo scientifico, infine quella dei musicisti, il «core business» di una app che ha puntato sui podcast per allargare il proprio mercato ma che, dopo aver ingaggiato il più famoso d’America, ha visto la propria capitalizzazione di mercato ridursi del 25%. «Vogliamo che i creator siano liberi di creare», aveva spiegato tempo fa l’Aa di Spotify Daniel Ek al Financial Times, che gli chiedeva cosa pensasse della decisione di Rogan di invitare il re delle teorie cospirative Alex Jones, conduttore radiofonico di estrema destra e suprematista bianco. «Non vogliamo mettere bocca su quello che devono dire».
Per tre quarti italiano e per il resto irlandese, nato a Boston ma trasferitosi a Los Angeles nel 1994, Rogan ha 54 anni ed è uno dei personaggi più potenti e influenti dei media americani. Ha iniziato recitando in vecchie serie tv e conducendo un reality show di sopravvivenza su Nbc, «Fear Factor», dove ha raggiunto i primi milioni di spettatori. Si è fatto però un nome con l’ultimate fighting, le arti marziali miste di cui è appassionato – da ragazzo è stato per quattro anni di fila campione di taekwondo del Massachusetts – e che ha commentato in tv per un decennio, mentre portava avanti la sua carriera da stand-up comedian, il cabaret dal vivo all’americana che ne ha forgiato lo stile per le sue sterminate dirette, alcune lunghe anche 3 ore.
Nel 2009 ha poi fondato il suo podcast, la Jre (The Joe Rogan Experience), snobbata dalle élite ma diventata un fenomeno culturale, arrivando anche a 190 milioni di download al mese. Un seguito enorme che Rogan deve soprattutto alle sue posizioni «ibride», che lo aiutano a scavallare la profonda divisione politica che spacca a metà gli Stati Uniti, una rarità di questi tempi: è a favore dei matrimoni gay, del reddito di cittadinanza e dell’uso ricreativo di droghe, ma anche del diritto a detenere armi.
Decisamente libertario e un po’ di sinistra, sostenitore della prima ora di Bernie Sanders, Rogan detesta le politiche identitarie, la cancel culture e – ovviamente – il politically correct. È attratto dai temi di giustizia sociale, ma in modo tale da non spaventare i conservatori. E così, in un decennio si è costruito un pubblico di fedelissimi bipartisan che lo ha seguito su tutte le piattaforme, dove ha raccolto centinaia di milioni di ascoltatori e di dollari, fino all’esclusiva con Spotify.
Oggi trasmette da Austin, la capitale del Texas diventata la mecca del mondo tech, dove si è trasferito lo scorso anno in una villa da 14 milioni di dollari.