Corriere della Sera, 31 gennaio 2022
Ucraina, nel nome il suo destino
Il destino dell’Ucraina è contenuto già nel suo nome: in slavo l’espressione «u-craina» significa «al confine», e nel linguaggio geopolitico è lo spazio-cuscinetto fra due superpotenze che non deve appartenere a nessuno per garantire gli equilibri strategici. Quando l’Urss collassò, nel 1991, l’Ucraina fu la prima delle Repubbliche sovietiche ad andarsene da Mosca. Zbigniew Brzezinski, il consigliere per la sicurezza della Casa Bianca ai tempi di Carter, avvertì come la nascita dell’Ucraina si sarebbe rivelata «una delle grandi svolte del ‘900, dopo la dissoluzione della Cortina di ferro». La tensione di queste settimane tra Russia e Occidente viene da quegli avvenimenti lontani. Ma perché questo Paese – il più grande d’Europa dopo la Russia, esteso quanto Germania e Gran Bretagna messe insieme, con gli stessi abitanti della Spagna – è conteso al punto da riportarci a scenari da Guerra fredda? «La vera linea Est-Ovest passa per l’Ucraina e, più in là, per le riserve energetiche del Caspio», scrisse qualche anno fa il New York Times: «A Putin interessa possederla, agli Usa controllarla».
Il patto non scritto Bush Gorbaciov
Torniamo al 1989. I russi sostengono che dopo la caduta del Muro di Berlino ci fu un accordo non scritto fra il leader sovietico, Mikhail Gorbaciov, e l’allora presidente americano George Bush: in cambio della riunificazione della Germania e del ritiro delle forze armate di Mosca, la Nato non si sarebbe mai allargata sui Paesi del Patto di Varsavia, e men che meno alle Repubbliche ex sovietiche. È un accordo che gli americani ufficialmente hanno sempre negato. E che durò comunque poco. L’indipendenza dell’Ucraina venne sancita il primo dicembre del 1991: esattamente cinque mesi dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia. Nel 1993, con la nascita dell’Ue e le prime richieste d’adesione dai Paesi dell’Est, gli Stati Uniti s’inventano il «Partenariato per la Pace», un programma che aggiri i veti russi e avvicini alla Nato non solo i Paesi dell’ex Patto di Varsavia, ma anche pezzi della vecchia Urss come l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. Di più: il presidente americano Bill Clinton chiede a tutti gli europei che i negoziati per l’ingresso nella Ue, da quel momento, siano preceduti anche da una sostanziale adesione ai principi della Nato. La regola non è codificata, ma diventa una prassi, anche perché sono i Paesi stessi a chiedere di far parte dell’Alleanza. È andata così per Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca, le tre Repubbliche baltiche, e sta andando allo stesso modo nei Balcani: dall’Albania al Montenegro alla Macedonia.
Putin: l’Ucraina no!
La Russia post-sovietica e indebolita di Boris Eltsin, subisce negli anni 90 questo allargamento occidentale. Si negozia su tutto. Si cominciano a progettare le due linee del gasdotto Nord Stream, che dovranno trasportare direttamente il gas russo in Europa, bypassando gli ex alleati della Polonia, dei Paesi baltici e dell’Ucraina, ma pure i fedelissimi bielorussi. Perché a Mosca, in quel momento, è più urgente incassare dollari che credito politico. Con l’arrivo di Vladimir Putin, cambia tutto. E il primo, deciso «niet» è proprio sull’Ucraina. La linea rossa invalicabile. Kiev era la capitale della terza più grande Repubblica dell’Unione Sovietica. Il granaio e l’arsenale dell’impero: dava a Mosca un quarto dei cereali, del latte, un terzo del ferro, del carbone e del manganese, ospitava le centrali e le testate nucleari. La popolazione dell’Ucraina Orientale e della Crimea è sempre rimasta in gran parte russa per lingua, mentalità e cultura. Lo scorso luglio Putin ha detto chiaro come la pensa: ucraini, russi e bielorussi nascono dalla stessa radice e devono restare insieme. L’Ucraina, dunque, no. Un suo ingresso nella Nato, al pari di quello della Georgia, diminuirebbe la credibilità strategica e politica della Russia.
Nel 2004 a Kiev scoppia la Rivoluzione arancione sostenuta dall’Occidente, ed è lì che il Cremlino riesce a far eleggere un suo uomo, Viktor Yanukovich, con un voto che verrà dichiarato truccato: il suo avversario, Viktor Yuschchenko, viene misteriosamente avvelenato con una dose di diossina. E alla fine d’una disputa sul gas, con Mosca che accusa Kiev di fare la cresta sulle forniture all’Europa che passano per i gasdotti ucraini, è sempre Yanukovich a farsi rieleggere e a spostare il Paese sulle posizioni di Mosca.
2008: no di Roma, Parigi e Berlino
Il 4 aprile 2008 durante il vertice Nato convocato a Bucarest, gli Usa fanno pressioni per l’ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza, ma non se ne fa nulla a causa dell’opposizione di Italia, Francia e Germania. Romano Prodi, che era presente a quel vertice, ricorda «abbiamo detto no, “per ora”, perché avrebbe creato tensioni». E infatti, la Georgia, per aver provato ad uscire dall’influenza di Mosca, nell’agosto del 2008 assaggiò la prima guerra europea del XXI secolo. La Moldova si trovò bloccate le esportazioni in Russia, non appena firmò un accordo d’avvicinamento all’Europa. Nel 2014, in Ucraina, sarà una nuova sanguinosa sollevazione della capitale a cacciare Yanukovich definitivamente, svelare i piani americani e spingere Putin ad una duplice, risposta: l’invasione della Crimea e l’annessione della penisola attraverso un referendum presidiato dalle forze d’occupazione; la secessione della regione del Donbass filorusso, sul confine dell’Est, che porterà all’autoproclamazione delle Repubbliche di Donetsk e di Lugansk e farà cominciare otto anni d’una lunga guerra civile ancora in corso, con 14 mila morti.
Chi sta inviando armi
Per bloccare le aspirazioni dell’Ucraina a mettersi sotto la protezione Nato, la Russia ha ammassato truppe e mezzi corazzati: 130.000 uomini ai confini del Donbass, più 40 mila dislocati in Bielorussia, oltre che in Moldova e in Transnistria. L’Ucraina chiede aiuto, e la risposta arriva con una massiccia fornitura di armi. Una norma Nato vieta l’esportazione in Paesi terzi senza l’ok del produttore: prima di vendere armi tedesche agli ucraini, per dire, l’Estonia deve avere il permesso della Germania (che ha deciso di non darlo). In questo caso gli Usa hanno autorizzato Paesi Nato a esportare armi d’ogni tipo. Dagli Usa sono arrivati missili anticarro portatili Javelin a guida infrarossi autonoma, e missili antiaerei. Dalla Gran Bretagna armi leggere, anticarro e personale di addestramento. Dagli Stati baltici missili anticarro e antiaerei. Dalla Repubblica Ceca armi leggere. Dal Canada un contingente di forze speciali. Dalla Danimarca una fregata nel Baltico, più 4 caccia F-16 in Lituania. Olanda e Spagna sono pronte a fare la loro parte. La Turchia ha inviato i droni Bayraktar. Il rifiuto della Germania è il primo in 70 anni, ed ha incrinato il fronte Nato, con Francia e Italia che allo stesso modo non vogliono immischiarsi in una crisi dov’è in ballo la sicurezza energetica europea e importanti rapporti commerciali con la Russia.
Nato: natura e obiettivi
Per fermare l’escalation Putin chiede a Washington un impegno scritto: l’Ucraina non entrerà mai nella Nato, nessuna esercitazione Nato lungo i confini russi, niente truppe americane nei Paesi Baltici. La risposta di Biden: discutiamo, ma è l’Ucraina a decidere di quale sistema di sicurezza far parte. E in caso d’invasione, ci saranno pesanti sanzioni e le banche russe fuori dal circuito bancario internazionale. L’Ucraina è spaccata in due: l’Ovest che guarda all’Europa e l’Est filorusso. Non può reggere a lungo con una guerra civile che sta coinvolgendo tre regioni del Paese, le miniere di carbone in mano a Mosca, e gli investitori che fuggono. Una crisi che mostra l’interesse americano di arrivare sul confine russo, e quello di Putin a preservare la sua autorità politica. Ma rivela anche come la Nato sia un’alleanza da ridefinire, nella natura e negli obiettivi, perché la Guerra fredda è finita, e dall’altra parte non c’è più un nemico, ma un competitor.