Corriere della Sera, 31 gennaio 2022
L’eterno ritorno dei tanti ex Dc
Il dubbio di un amico: «No, scusa: ma hai provato a contarli?».
Democristiani. Quanti. E tutti in ruoli decisivi.
Sfogliare la Moleskine, rileggere gli appunti con dentro la storia della seconda elezione di Sergio Mattarella a capo dello Stato: trovarli.
Il primo che spunta fuori è anche quello che, per qualche ora, sabato mattina, ha seriamente creduto di poter trascorrere i prossimi sette anni al Quirinale. Pier Ferdinando Casini. Esemplare magnifico.
Figlio del segretario bolognese dello scudocrociato, cresciuto nella grande Sagrestia nazionale, lanciato alla Camera a soli 27 anni: poi una vita trascorsa un po’ nel centrosinistra, un po’ nel centrodestra. Talento, più astuzia: seduttore politico seriale – il Cavaliere tuonò: «Casini Presidente? Mai! È uno che tradisce» – in realtà fedele solo al proprio passato, al punto di abitare in piazza del Gesù, di fronte al vecchio palazzo rococò che fu la sede storica della Dc.
Casini: nella paginetta successiva ecco subito il suo sponsor, Matteo Renzi (in calzoncini corti con i boy scout cattolici e, appena maggiorenne, iscritto al Partito Popolare Italiano). Il Matteo che in Parlamento sa cosa fare, e come, e quando – l’altro Matteo, vabbé – per poco non riusciva nel colpaccio: sabato, all’alba, ha infatti suggerito a Pierfurby (cit. Dagospia): «Cercati subito più voti possibili, forse ci siamo». Così Casini ha cominciato l’attraversamento pastorale del Transatlantico blandendo chiunque. «Fratello, aiuta il tuo amico viandante...».
Lo sguardo da vescovo, una carezza e un pizzicotto, ha risalito l’emiciclo arrivando fino ai banchi leghisti. Molinari e Centinaio lo guardavano incantati. Graziano Delrio, osservando da lontano, avrà invece pensato: Signore, perdonalo, Pier non sa quello che fa (Enrico Letta – presidente dei Giovani Democristiani Europei tra il 1991 e il 1995 – aveva ormai stabilito che si dovesse andare decisi su Mattarella).
Delrio milita nel Pd, ma è cresciuto in una parrocchia della periferia di Rosta Vecchia in Reggio Emilia, partite di pallone interminabili e solide lezioni di cattolicesimo democratico dossettiano. Poi è comunque chiaro che i democristiani, tra di loro, si riconoscono a prescindere dagli studi (anche gli ex Pci, in verità). Il vicepresidente della Camera Ettore Rosato (Iv), per dire, viene dalla dicì triestina; il ministro Lorenzo Guerini (Pd) faceva invece il consigliere comunale a Lodi (con il padre comunista in un’epoca in cui girava voce che i comunisti mangiassero i bambini, pensate): alla fine, per capire da quale vigna ideologica provengano, ti basta parlarci cinque minuti. Con Dario Franceschini, ne basta anche uno.
Sentite cosa si è fatto scrivere il potente ministro della Cultura su Wikipedia: «Le figure carismatiche che fin dalla giovinezza suscitano la sua attenzione sono, fra le altre, Benigno Zaccagnini e don Primo Mazzolari».
Riflette su Twitter un osservatore acuto come Claudio Velardi: «L’antica ossatura democristiana del sistema ha risolto bene una situazione di crisi, lungo l’asse @enricoletta @guerinilorenzo @matteorenzi, con @dariofrance sullo sfondo. Le altre culture politiche sono marginali e ininfluenti». C’è poco da aggiungere. Del resto: anche solo per capire dove stessero andando certi cespugliosi centristi, da quelli di Coraggio Italia (Toti, Romani, Brugnaro, Quagliariello) a quelli del gruppone Misto, i cronisti hanno sempre chiesto un po’ di luce a Maurizio Lupi (molti di loro, quando Lupi faceva il consigliere comunale per la Dc a Milano, occupavano il proprio liceo, in assemblea sotto i manifesti del Che: ma adesso gli tocca sorbirsi la voce lucida e rassicurante di Lupi, ormai sempre più simile a un volontario di certi corsi pre-matrimoniali che si tengono nelle parrocchie).
Proprio come un parroco di provincia, con lo sciarpone stretto al collo, lo zuccotto nero, nero come il cappotto, e la sua aria curiale, pallida, ogni mattina tutti abbiamo invece visto venir su per via degli Uffici del Vicario Bruno Tabacci. Per capire che atmosfera ci fosse a Palazzo Chigi, e quale fosse l’umore di Mario Draghi, bisognava confessarsi da lui.
Democristiani. Ovunque. E necessari. Come Gianfranco Rotondi (uno che da ragazzo invece di andarsi a vedere l’Avellino di Juary, andava ad ascoltare i comizi di Forlani) consultato a lungo tipo mago Otelma per intuire quali fossero le reali intenzioni del Cavaliere.
Democristiani in diretta nei migliori talk. Ospiti fissi Clemente Mastella e Paolo Cirino Pomicino che, a 82 anni, è vera leggenda vivente scudocrociata (Paolo Sorrentino, nel film Il Divo, cioè Giulio Andreotti, a Pomicino/Carlo Buccirosso fa prendere una lunga rincorsa nel Transatlantico, chiusa con una scivolata pazzesca; mai avvenuta nella realtà, però perfetta per spiegare tutta la dimensione di onirico micidiale potere dicì).
Un democristiano di rango assoluto come Marco Follini ha scritto su La Stampa: «Non invocate il nome della Dc invano». No, infatti. Però qualcuno – più per scaramanzia, che per altro – è andato a rileggersi il titolo che fece il Manifesto nel 1983: «Non moriremo democristiani».