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 2022  gennaio 31 Lunedì calendario

Intervista alla biologa Barbara Gallavotti

Barbara Gallavotti avrebbe voluto fare la critica letteraria, e lo ha scritto nella biografia del suo blog, letterarissimo pure quello, dove raccoglie tutto ciò che resta fuori dai copioni, dagli articoli, dai capitoli che scrive, e che "nell’economia generale di quello che stai facendo, è sacrificabile, ma questo non evita il rimpianto: è come il libro preferito o le scarpe eleganti che non riescono a entrare in valigia». Si chiama Fuori Copione, dovreste leggerlo. Non lo aggiorna da diversi mesi, ed è interessante trovare quello che, l’anno scorso, non diceva in televisione e, allora, scriveva online, su quello spazio. Eravamo in piena pandemia e lei era uno dei volti più amati della tv, che in quei mesi era tornata a essere il focolare domestico degli italiani: chi guardava DiMartedì, lo faceva soprattutto per lei, la rivelazione della stagione (anche se in tv ci ha lavorato per molti anni, soprattutto come autrice, è passata da Ulisse a Superquark), la dolce biologa che esemplificava e semplificava servendosi spesso di favole, romanzi, e aveva i capelli lunghi e ricchi e sciolti e niente, in lei, riportava agli scienziati che cominciavamo ad abituarci a vedere in televisione: allarmati, stanchi, in camice. Pochi mesi prima della pandemia, Gallavotti aveva pubblicato un saggio, Le grandi epidemie. Come difendersi. Tutto quello che dovreste sapere sui microbi (Donzelli): per questo, in tv ci era poi andata a dirci come dovevamo difenderci dal covid, a raccontarci cosa sapevamo, come evolveva la ricerca, perché il contagio sembrava inarrestabile. Continua a farlo, e risponde a domande che sembrano impossibili. Su Google ci sono i link dei suoi interventi, e s’intitolano tutti con una domanda - «Gallavotti, ci si può devaccinizzare?; chi è un superimmune?
Domani sarà in libreria il suo nuovo saggio, Confini invisibili (Mondadori), che è il racconto del grande viaggio che il sapere scientifico ha compiuto in questi due anni - non ci pensiamo mai, o almeno non abbastanza, alla corsa che ha fatto la conoscenza del mondo e dei i microbi che abitano fuori e dentro di noi. C’è tutto: da Wuhan, ai negazionisti, a Semmelweis, Shi Zhengli, i pipistrelli, «come sarebbe il DNA del virus se lo scrivessimo come una terzina di Dante».
Perché non è diventata critica letteraria?
«Sogno ancora di diventarlo».
Non sarebbe meglio romanziera?
«Ho nel cassetto due o tre inizi di romanzi e tutti i racconti che amavo scrivere da piccola».
E allora?
«E allora io non ho mai distinto tra umanisti e scienziati. La cultura è unica e sia le lettere che la scienza nascono dal desiderio di dare un senso alle cose. Pensi a quanto è stato importante scoprire che i Neanderthal usavano dei pigmenti per colorarsi: l’arte, così come la tecnica, sono i primi segnali di umanità».
Però si è laureata in genetica.
«Mi affascinava perché ci svela qual è il materiale, spesso grezzo, su cui l’ambiente può agire per plasmarci,. Ci dice molto su noi stessi. I geni contengono indicazioni che possono essere minacce o promesse: la scienza ci aiuta sempre più a capire come far realizzare le promesse o disinnescare le minacce, e prendere in mano il nostro destino. La genetica poi ci dice moltissimo del nostro passato, della nostra evoluzione».
E cosa pensa dei movimenti che discutono del poter cambiare identità continuamente: è vero che si può deciderla?
«Credo che le persone rivendichino semplicemente il diritto di esprimere il modo in cui si sentono, che è la cosa più personale che esista. Naturalmente molti ricercatori si sono chiesti il perché di quello che chiamiamo orientamento sessuale, ma non mi pare che ci siano risposte soddisfacenti. Nell’attesa che arrivino, credo che l’unica cosa da fare sia prendere atto del fatto che esistono differenze».
Cosa vorrebbe che la scienza dimostrasse in modo definitivo?
Lo ha già fatto: ha già dimostrato che gli esseri umani sono tutti geneticamente identici al 99,9%, dunque che non è possibile dividerci in gruppi, in razze o in altro. Le differenze che tanto ci colpiscono, come quelle nel colore della pelle, dal punto di vista genetico sono davvero minime».
Cos’ha imparato in questi due anni?
«Che senza solidarietà, l’uomo non ha speranza di salvarsi dall’estinzione».
La malattia è un fatto sociale?
«La gestione della malattia lo è, ed è la ragione per cui ritengo fondamentale e straordinario che abbiamo un servizio nazionale gratuito e di qualità per tutti. Il sapere che se ti ammali qualcuno ti cura è una conquista propria di poche parti del mondo».
Curarsi è un fato di responsabilità sociale?
«Esiste il dovere sociale di non contagiare gli altri e di non rappresentare un pericolo per le altre persone. Per il Covid tutto deriva dall’equivoco continuamente ripetuto della influenza dalla quale ci si salva: a parte che gli effetti a lungo termine del Covid non sono ancora per nulla chiari, e il Covid è una malattia pericolossima».
I divulgatori scientifici sono diventati pop?
«Sono diventati pop gli scienziati, non i divulgatori. E in questa pandemia si è proprio sentita la mancanza di divulgatori, perché gli scienziati sono coloro che ti raccontano il loro lavoro, ma - come si è visto – spesso parlano al pubblico come a un contesto di colleghi: non sentono il bisogno di mettere una cesura tra le cose stabilite e assodate e le loro ipotesi, perché tra esperti non ce ne è bisogno. Allora è successo che i cittadini hanno avuto l’impressione che ci fosse un disaccordo tra scienziati e che quindi ci fosse una confusione che non c’è mai stata: ci sono state semplicemente tante ipotesi come è giusto che sia in un momento in cui non è noto tutto. Il divulgatore, deve essere chiaro, informa, non insegna: serve a mettere in condizione le persone che non si occupano di scienza tutti i giorni di poter prendere decisioni».
Perché sottovalutiamo sempre i rischi peggiori e, invece, esageriamo le inezie?
«Abbiamo una capacità naturale a semplificare i problemi, e trovare soluzioni rapide, forse per i nostri antenati è stata anche una risorsa di sopravvivenze. Ora però abbiamo problemi così complessi che questo nostro tratto ci gioca contro. Spesso siamo stati alleati dei nostri nemici: in maniera del tutto inconsapevole, ci siamo trovati a mettere in atto dei comportamenti che hanno aiutato i microbi così come adesso ci troviamo a mettere in atto dei comportamenti che aiutano i cambiamenti climatici».
Lei sa rispondere sempre a tutto?
«No, e le domande più difficili sono quelle di senso. Forse perché portano a risposte dolorose e poco soddisfacenti».
Che cos’è l’essere umano?
«Una comunità costituita da una maggioranza di microbi e una minoranza di cellule umane. Ma insieme abbiamo molto successo».