La Stampa, 31 gennaio 2022
In Yemen la guerra dei bambini
Gli occhi di Basam, neri e profondi, sono fissi verso il cielo, mentre la striscia di sangue dalla bocca scende velocemente sul collo. La polvere sollevata dagli anfibi dei compagni d’armi copre le lisce guance ocra, rimanendo attaccata al grasso del fucile che gli camuffa il volto. Lo stesso Ak-47 che, sino all’ultimo respiro, ha tenuto stretto tra le mani minute rispetto all’ingombrante fucile. La vita di Basam si è consumata con un colpo di mortaio, il boato, lo spostamento d’aria, le schegge, una delle quali si conficca nel ventre glabro del bambino soldato nascosto dalla lunga cartucciera.
Il corpo viene trascinato in trincea, dove i combattenti ripiegano sotto il fuoco dell’offensiva saudita, posato accanto ad altri cadaveri, alcuni sono esili come il suo. Gli occhi rimangono aperti, ad invocare la protezione di Allah o l’ultimo abbraccio della mamma a centinaia di chilometri. Basam vuol dire sorriso, quello che gli è stato usurpato da fanciullo, quando i capi ribelli sono andati a bussare alla porta di casa. Basam è uno dei duemila minori reclutati dagli Houthi e morti in battaglia, nuove matricole da sommare al computo delle piccole vittime del conflitto che in sette anni ha causato 377 mila morti.
Nel rapporto annuale diffuso dal Consiglio di sicurezza, gli esperti delle Nazioni Unite affermano di aver trovato prove che i ribelli sciiti utilizzano campi e una moschea per diffondere la loro ideologia e reclutare bimbi con cui combattere il governo yemenita appoggiato dalla coalizione guidata da Riad. «Ai bambini viene insegnato a gridare slogan come "morte all’America, morte a Israele, maledetto agli ebrei, vittoria all’Islam" - spiegano gli esperti. In un campo, ai bambini di appena sette anni è stato insegnato a pulire le armi e a difendersi dai razzi». L’Onu sostiene di aver ricevuto un elenco di 1.406 bambini reclutati dagli Houthi e morti sul campo di battaglia nel 2020 e 562 bambini uccisi tra gennaio e maggio 2021. «Avevano un’età compresa tra 10 e 17 anni», dicono gli esperti, e «un numero significativo» sono stati uccisi ad Amran, Dhamar, Hajjah, Hodeidah, Ibb, Saada e Sanaa. Ad alcuni di loro era stato detto che avrebbero frequentato corsi culturali, in altri casi le famiglie sono state minacciate di non ricevere più aiuti umanitari. E ci sarebbe stato un caso di stupro.
Secondo la Wethaq Foundation sono 12.433 i bambini soldato registrati nello Yemen, il 75% nelle file degli Houthi, gli altri fra i governativi accanto a cui combattono mercenari da oltre una decina di Paesi, molti sudanesi. A Marib un centro finanziato dal King Salman Humanitarian Aid and Relief Centre ne ha curati oltre cinquecento. L’edificio a due piani assomiglia a un collegio, le stanze per dormire linde e ordinate, piene di giocattoli e disegni. Nel centro ci sono una trentina di bambini, magri, gli sguardi diffidenti, spaventati, alcuni consunti dallo stress e dalle anfetamine che davano loro per spingerli all’attacco. La riabilitazione di 45 giorni è condotta in primo luogo da uno psicologo. Alcuni hanno subito anche mutilazioni e sempre in città è stato istituito un centro per l’impianto di protesi.
Le vittime innocenti del conflitto yemenita non sono però solo quelle costrette a imbracciare i Kalashnikov. Sono donne e bambini in fuga, tanti dei quali si rivolgono alle strutture di Medici senza Frontiere come quelle di Marib, attualmente la prima linea più calda in Yemen. «Il conflitto sta mettendo a dura prova la salute mentale delle persone, ma i servizi sanitari specializzati nel governatorato di Marib sono praticamente inesistenti», spiega l’organizzazione che ha condiviso le testimonianze in esclusiva con La Stampa. Come quella di Asifa, sette anni, rimasta intrappolata insieme ai fratelli e alla madre nel distretto di Medghal. La zona era assediata da uomini armati e tutta la famiglia era convinta che sarebbero morti. Fortunatamente, sono riusciti a fuggire attraverso il deserto fino alla città di Marib. Sebbene fisicamente illesa, l’esperienza ha colpito gravemente Asifa. Da allora ha avuto attacchi di panico. Abdul Haq, di Msf, la prende in cura e si rende conto che, anche Amara, la madre della bimba, è soggetta a forte ansia che contribuisce allo stress post traumatico dei bambini. Così entrambe vengono sottoposte a terapia per i disturbi del comportamento per renderle mentalmente forti e far fronte a ciò che hanno vissuto.
Arkani, 20 anni, ha iniziato il viaggio assieme al marito otto mesi fa dall’Etiopia, il loro obiettivo era raggiungere l’Arabia Saudita per guadagnare e creare un futuro migliore. Dopo aver trascorso due mesi ad Aden, rimangono bloccati nel governatorato di Marib, nel Nord del Paese, in attesa con centinaia di altri migranti etiopi di attraversare il confine con l’Arabia Saudita. Lì iniziano i problemi di salute. Arkani si rivolge al centro di assistenza di Msf Al-Ramsa dove riceve le cure per lenire le forti emicranie e i dolori muscolari e ottiene consigli sulla pianificazione familiare per assicurarsi che non rimanga incinta durante il suo viaggio.
Nella clinica mobile di Msf ad Al-Noor, arriva invece Aliya, bimba di otto mesi, assieme a sua madre Aafia. Soffre di dissenteria. Durante la visita medica, le viene diagnosticata una malnutrizione acuta, che temono possa trasformarsi in grave malnutrizione se non trattata. Ad Aliya vengono somministrati farmaci e una volta trattata la diarrea, inizierà il trattamento della malattia per alcune settimane. La sua è una delle tante emergenze quotidiane che cadenzano le giornate del nuovo fronte caldo, un tempo rifugio degli sfollati e oggi teatro di bombardamenti che causano danni e perdite da entrambe le parti.
Le voci di denuncia su crimini contro l’umanità arrivano anche dal fronte opposto. Abdul Malek al Ajari, è il segretario dell’ufficio politico di Ansar Allah, l’organizzazione militare dei ribelli filoiraniani definita, appunto, «Partigiani di Dio».
Il leader Houthi ha voluto parlare con La Stampa per fornire dettagli sull’attacco della coalizione di due settimane fa alla prigione di Saada che ha causato, secondo Msf, almeno 70 morti. «La struttura non era di Ansar Allah ma è un carcere amministrato dalle autorità locali - spiega -. Non è la prima volta che l’Arabia Saudita nega i suoi crimini, basti pensare al terribile massacro causato dal bombardato di un funerale o il raid contro un autobus pieno di bambini». Per quanto riguarda la fine dell’escalation, afferma il leader sciita, «prima dobbiamo raggiungere un’intesa sulle questioni umanitarie, e due accordi separati, uno sul porto di Hodeida e l’altro sull’aeroporto di Sanaa. Poi negoziamo il cessate il fuoco globale su tutto il territorio yemenita, la fine delle incursioni in cambio del lancio dei missili e i droni da parte nostra e il ritiro di tutte le truppe straniere dallo Yemen. Questa è l’unica roadmap verso la pace».