la Repubblica, 31 gennaio 2022
E Caravaggio rinnegò la sua famiglia
La vita privata del Caravaggio è pressoché sconosciuta mentre sappiamo molto di quella pubblica gremita di dipinti celeberrimi, clamorosi riconoscimenti, ma anche e soprattutto di processi, arresti, fughe, inseguimenti. L’unico spiraglio aperto sulla sua intimità è contenuto in una delle più antiche biografie scritte su di lui, quella del medico e cultore d’arte senese Giulio Mancini, personaggio di spicco nella Roma del primo Seicento che Caravaggio conobbe personalmente. Dopo averne raccontato esaurientemente vita e opere, Mancini aggiunge una pagina che sembra un misto di analisi specialistica e gossip scandalistico: «Non si può negare che per una figura sola, per le teste e colorito non sia arrivato a gran segno e che la professione di questo secolo non gli sia molto obbligata. Ma questo suo gran sapere d’arte l’aveva accompagnato con una stravaganza di costumi, perché aveva un unico fratello sacerdote huomo di lettere e buon costumi qual sentendo i gridi del fratello, gli venne voglia di vederlo, e mosso da fraterno amore se ne viene a Roma e sapendo che era trattenuto in casa dell’illustrissimo cardinal Del Monte et il stravagante modo del fratello, pensò essere bene di far prima motto all’illustrissimo Cardinale di esporli tutto come fece; hebbe buonissime parole, che tornasse tra tre giorni. Obbedisce. Fra tanto il Cardinale chiama Michelangelo e gli domanda se ha parenti, gli risponde che no, né potendo credere che quel sacerdote gli dicesse bugia in cosa che si poteva ritrovare e che non gli risultava utile, perciò fra tanto fa cercare fra paesani se Michelangelo avesse fratelli e chi, e trovò che la bestialità era da parte di Michelangelo. Torna il prete dopo i tre giorni e trattenuto dal cardinale fa chiamare Michelangelo e mostrandogli il fratello, disse che non lo conosceva né essergli fratello». Da questo passo è nato il mito del pittore maledetto, violento, predestinato a morte sciagurata. E le sue opere, rivoluzionarie e inquietanti, sono state sovente interpretate in questa chiave, fino alla mitologia di una vita violenta che a molti esegeti è sembrata pasoliniana, fatta di frequentazioni trasgressive, di radicalità di comportamenti fino alla più efferata criminalità. Ma la radice di tutto è in quel disconoscimento degli affetti familiari. Ne sono ulteriori testimoni oculari Giovanni Baglione e Gaspare Celio, due artisti e scrittori più o meno coetanei del Merisi, a loro volta suoi scrupolosi biografi. Decisivo per entrambi, proprio in connessione col cruciale argomento del rispetto dei legami familiari è il quadro della Vocazione di Matteo dipinto dal Caravaggio in occasione del Giubileo del 1600 per la Cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, quando il pittore aveva ventinove anni ed era la sua prima opera pubblica. Cristo chiama all’apostolato l’esattore delle imposte Matteo, ma prevale nel quadro una componente forse autobiografica, quasi che il Caravaggio intendesse dire come qualcosa di sconvolgente irrompa sulla scena dell’arte annichilendo una mentalità consolidata vigente in quel campo e ritenuta immodificabile. Baglione racconta come quel capolavoro fosse giudicato in chiave riduttiva da Federico Zuccari, pittore insigne e teorico eminente, Principe dell’Accademia di San Luca; mentre Celio narra come Giovanni de Vecchi, forse il più autorevole pittore del tempo, rimarcasse la assoluta carenza del Merisi nel disegno pur apprezzandone gli sforzi fatti per creare qualcosa di buono. Il Caravaggio era visto, insomma, come estraneo e spregiatore di quelli che oggi definiremmo “i valori”. Ma quei valori erano appunto incardinati al culto della tradizione familiare posta a fondamento della validità individuale e sociale dell’opera d’ arte, suprema garanzia di dottrina e bellezza.
Era il tempo, infatti, delle grandi famiglie di artisti, come i Procaccini tra Bologna e Milano, i Carracci tra Bologna e Roma, i De Vecchi da Borgo Sansepolcro che fu patria di Piero della Francesca e Luca Pacioli. Ed era il tempo, contestualmente, delle grandi Accademie, da quella del Disegno a Firenze creata da Giorgio Vasari a quella di San Luca a Roma patrocinata dal cardinale Federico Borromeo e diretta da Federico Zuccari, che l’aveva costituita nel culto di suo fratello Taddeo Zuccari, l’erede di Raffaello e supremo prototipo di modello familiare, fondamento dell’arte in sé. La vita di Taddeo era stata esemplare: una gavetta durissima nell’indigenza ma nella totale dedizione all’arte; il contatto con una delle più grandi famiglie nobili romane, i Mattei, tutori di quella tradizione della casa che favorisce l’affratellamento tra committente e artista; la gloria scaturita dalle opere che ne conseguono. Federico raccontò questa vicenda in un memorabile ciclo di disegni, quasi un graphic novel.
Era proprio questa la vita che il Caravaggio aveva vissuto, dall’arrivo a Roma, duro e stentato, all’apoteosi successiva grazie alla Vocazione di Matteo,appoggiato dai nobili Crescenzi e dalla Reverenda Fabbrica di san Pietro. Ma non certo dalla sua famiglia di origine che aveva ripudiato per sostituirla con una cerchia di amici, forse quelli prodigiosamente rappresentati nella Vocazione, Cristo compreso. Famiglia sui generis che sembra la Factory di Andy Warhol. Eppure è proprio la dimensione degli affetti familiari l’argomento principe di tutte le sue opere, e soprattutto l’amore materno intransigente e misericordioso del Riposo nella fuga in Egitto Doria Pamphilj, della Madonna dei Pellegrini in Sant’Agostino, della Madonna dei Palafrenieri per San Pietro, oggi alla Galleria Borghese. Cristo ripudiò la sua famiglia, uno scandalo che non si esaurirà mai e che riguarda da vicino la spiritualità del Caravaggio.Per secoli si è visto nei suoi quadri ciò che non c’è: la violenza, il crudo realismo, la brutalità che in effetti contraddistinsero i suoi comportamenti. Ma è l’ amore cristiano che si vede nelle sue opere e non ce ne accorgiamo.