la Repubblica, 31 gennaio 2022
l caso Belloni e la legge mancante su Servizi e politica
Tra le lezioni di una settimana che il Paese non dimenticherà ce n’è una, per certi aspetti più rivelatrice di altre, che attiene alla qualità della nostra democrazia e all’integrità di una delle sue infrastrutture più delicate: gli apparati di sicurezza e intelligence. All’urgenza di metterla al riparo dal collasso della cultura politica della nostra classe dirigente. E a un baco del sistema che va rapidamente corretto.
Che venerdì notte, intorno al nome di Elisabetta Belloni, direttrice generale del Dis, il Dipartimento per le informazioni e la sicurezza, il vertice dei Servizi (e prima attorno a quello di Giampiero Massolo, anche lui ex direttore del Dis), si sia consumata l’avvilente coda di un “casting” che ha degradato la scelta del candidato presidente della Repubblica alle selezioni per un talent è già, in sé, un catastrofico danno per i delicatissimi equilibri che regolano gli interna corporis dei nostri apparati. E che alla trovata abbiano lavorato con spregiudicato entusiasmo e con la collaborazione di un condannato in via definitiva detenuto ai domiciliari (Denis Verdini), un ex ministro dell’interno e vicepresidente del Consiglio (Matteo Salvini), un altrettanto spregiudicato ex premier (Giuseppe Conte) e la leader di una destra con ambizioni di governo (Giorgia Meloni), senza avvertire, neppure per un istante, l’enormità del passaggio senza soluzione di continuità di un’eccellente civil servant, quale Belloni è, dal vertice dei Servizi al ruolo di garante dell’unità nazionale e della Costituzione, è il segnale della catastrofe del rapporto tra politica e apparati.
Orfana di legittimazione, la politica, che un giorno sì e l’altro pure rivendica il suo primato e riscatto, sceglie infatti la pericolosissima scorciatoia che, nella disperata ricerca surrogata di autorevolezza e competenza, porta a travolgere il confine che deve separare e proteggere la terzietà degli apparati di sicurezza dal gioco politico. Ad alimentare un pericoloso, opaco e tossico milieu tra chi detiene per statuto notizie coperte da segreto e attinenti la sicurezza nazionale e coloro cui quegli apparati rendono conto. Parliamo di chi, nelle istituzioni, siede per volontà popolare e con libertà di mandato.
Non erano mancati segnali in questo senso ben prima della settimana scorsa. Sarebbe sufficiente ricordare l’incestuoso rapporto coltivato da Salvini e Conte con una figura come l’ex dirigente del Dis Marco Mancini (lo 007 che per una vita ha sussurrato all’orecchio della politica, cui era stata promessa la vicedirezione dell’Aise, il nostro spionaggio estero, e spedito in un autogrill della Roma- Firenze nei giorni della crisi del governo Conte per sondare le intenzioni di Matteo Renzi). O la disinvoltura nell’interpretazione del suo ruolo dell’ex direttore del Dis (e predecessore di Belloni) Gennaro Vecchione che di fronte al Copasir (il comitato di controllo parlamentare sui Servizi) discettava di emendamenti alla legge di bilancio per portare a casa, fuori da ogni cornice normativa, una fondazione per la cyber security. Per non dire dell’inedito di un eccellente direttore dell’Aise, Luciano Carta, transitato senza soluzione di continuità dal vertice del Servizio a Leonardo.
È dunque necessario e urgente, di fronte all’incapacità di self-restraint della politica, all’evidente rottura di un argine cruciale della dialettica democratica, che il Parlamento metta mano alla legge di riforma dei Servizi colmando un vuoto esiziale e non più sostenibile. Disciplinando dunque con cura, intelligenza, e spirito bipartisan, un regime di ineleggibilità e incompatibilità degli appartenenti o ex appartenenti ai nostri apparati di sicurezza e intelligence. Il Pd, attraverso il suo responsabile sicurezza e membro del Copasir, Enrico Borghi, ha annunciato ieri un’iniziativa in questo senso. È una buona notizia. Che non va lasciata cadere. Perché se è vero che la salute di una democrazia si misura anche e soprattutto dalla sua capacità di manutenere e sorvegliare il suo sistema di check and balance, di controllo ed equilibrio tra istituzioni e corpi dello Stato, questo è il momento per farlo. Con la stessa urgenza che, nei mesi scorsi, ha accompagnato la discussione su un altro baco di sistema, quello che non prevede l’incompatibilità tra l’esercizio della funzione giudiziaria e quello di eletto nei consigli comunali.
Darsi delle regole, dove le regole mancano, non è mai una cattiva idea. A maggior ragione quando le regole servono a presidiare snodi decisivi nella vita delle istituzioni. Darsele alla vigilia di uno scorcio di legislatura che comincia con gli auspici della settimana appena trascorsa è un imperativo.