Anna Paola Merone per il “Corriere della Sera – ed. Roma”, 30 gennaio 2022
“QUEI GIOIELLI NON APPARTENGONO AI SAVOIA” – ALESSANDRO SACCHI, PRESIDENTE DELL’UNIONE MONARCHICA ITALIANA: “GLI EREDI DI UMBERTO II NON HANNO DIRITTI SUL TESORO CONSERVATO NEL CAVEAU DELLA BANCA D’ITALIA” – “QUANDO FINÌ LA MONARCHIA ASSOLUTA, SI CREÒ UNA DIVISIONE FRA BENI PRIVATI E PUBBLICI. QUANDO UMBERTO II COMPÌ L'ATTO DI CONSEGNA ERA CONSAPEVOLE CHE I GIOIELLI ERANO DELLA CORONA E DUNQUE DEI SAVOIA SOLO FIN QUANDO C'ERA LA MONARCHIA” -
«Quei gioielli non appartengono ai Savoia. Gli eredi di Umberto II non hanno diritti sul tesoro conservato nel caveau della Banca d'Italia dal giugno 1946». Alessandro Sacchi, presidente dell'Unione monarchica italiana, non ha alcun dubbio: «Le pretese avanzate dai discendenti del re non hanno fondamento».
I gioielli, dunque, non appartengono alla famiglia reale? «No. Umberto II consegnò a Einaudi un cofanetto con un biglietto. Di suo pugno aveva scritto: da ritirare da chi ne ha diritto e titolarità . Einaudi chiese: è proprio necessario? Ma Umberto non vacillò, perché aveva consapevolezza che il contenuto di quel cofanetto non gli apparteneva. Non erano beni privati.
Gli occorrevano soldi, che si fece prestare dal Papa al quale poi li restituì, ma aveva l'assoluta certezza che di quei beni non poteva disporre. Non era roba sua e non è roba degli eredi».
E i gioielli di famiglia? «Quelli li portò via. Da poco è stata venduta da Maria Gabriella, a un'asta internazionale, una tiara di brillanti del valore di diversi milioni che era di proprietà dei Savoia. La storia è piena di re andati in esilio con in testa la corona, che poi hanno smontato e rivenduto a pezzi.
Ma Umberto no: nel suo stile è stato rigoroso e costituzionalista. Se avesse avuto un benché minimo dubbio si sarebbe regolato diversamente: era ossequioso delle norme in maniera esasperata».
Gli eredi però sostengono che i gioielli non vanno considerati come le carrozze o i palazzi. «Quando finì la monarchia assoluta, si creò una divisione fra beni privati e pubblici. Nello Statuto Albertino, articolo 19, si fa riferimento alla dotazione della Corona che erano i palazzi, le ville e, per estensione, le carrozze e - in seguito - le automobili e altri benefit in uso al re o alla sua famiglia.
Quando Umberto II compì l'atto di consegna era consapevole che i gioielli erano della Corona e dunque dei Savoia solo fin quando c'era la monarchia. Vittorio Emanuele III dopo la prima guerra mondiale decise di tenere i gioielli al Quirinale, in ufficio.
Così come il tesoro della Corona inglese è nella Torre di Londra e non appartiene a Elisabetta o ai suoi eredi, ma all'Inghilterra. Anche negli Stati Uniti, alla fine del mandato, il presidente lascia alla Casa Bianca tutti i doni di valore ricevuti. Nulla gli appartiene se non nella sua funzione di capo dello Stato».
Cosa c'è nel cofanetto? «Monili, moltissime perle e numerose pietre. Negli anni Settanta venne fatto un inventario. Con l'avvocato di casa Savoia, Carlo D'Amelio, e il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, era presente anche il gioielliere Gianni Bulgari, convocato come esperto. Ricordo che furono inventariate circa trecento pietre. Gli eredi Savoia sanno che ci troviamo di fronte a un grande patrimonio».
Ci sono precedenti che hanno dato ragione agli eredi Savoia? «Le sorelle di Umberto hanno riottenuto il castello di Racconigi. Era di proprietà, anche se con un gesto discutibile il primo gennaio del 1948 lo Stato aveva avocato a sé anche i beni privati della famiglia. Il 28 dicembre morì Vittorio Emanuele III, e si aprì la successione. Una circostanza che favorì il ricorso delle sue quattro figlie».