il Giornale, 30 gennaio 2022
Un saggio sui caratteri nazionali
Il vecchio detto recita: «Paese che vai, usi che trovi». Sembra saggezza popolare un po’ spiccia, dentro cui si nasconde l’accettazione del luogo comune. E di luoghi comuni ce n’è per tutti: i milanesi laboriosi ma un po’ bauscia (ma il milanese vi garantirà che il bauscia è il pur laborioso brianzolo), il napoletano tutto pizza, allegria ma a colpi di ammuina, il ligure incline a tirchieggiare... Per tacere della socievolezza attribuita alle signore di certe città o della mancanza di gatti a Vicenza. Quando poi si è finito di cavillare sulle caratteristiche cittadine, provinciali o regionali ci si sposta sul luogo comune a livello nazionale. Già per Dante i tedeschi erano «lurchi» (ghiottoni), gli italiani si sono beccati qualunque epiteto – c’è ancora chi è disposto a stupirsi se non suonate il mandolino come il capitano Corelli – e nel mondo c’è chi è disposto a giurare che nessuno è testardo come un irlandese... Poi, ammettiamolo, se vi dicono che un prodotto è made in Germania o Svizzera, tendenzialmente vi sentite più tranquilli che se ci fosse scritto made in Burkina Faso. Stereotipi belli e brutti che saranno solo tali, ma che in fondo usiamo tutti. Sappiamo che un perito meccanico del Burkina Faso capirà più di un motore rispetto a un panettiere tedesco, che il pizzaiolo tedesco farà la pizza meglio di un cardiologo napoletano... Eppure tutti vorremmo un pizzaiolo napoletano o, quantomeno, che il pizzaiolo tedesco avesse vissuto sei mesi a Napoli.
Siamo partiti dal basso, dal common sense (utile o pericolosissimo, se usato male) ma abbiamo toccato un problema che fa arrovellare i filosofi da migliaia di anni. Non ci credete? Provate a leggere il denso saggio di Emilio Mazza e Michela Nacci pubblicato da Marsilio: Paese che vai. I caratteri nazionali fra teoria e senso comune (pagg. 358, euro 27).
Compulsando il volume vedrete che i più bei cervelli degli ultimi 2500 anni hanno sbattuto i lobi frontali sulla questione senza venirne veramente a capo. Partendo dall’antichità si è subito infilata la china del determinismo ambientale. L’idea degli antichi la sintetizza bene Cicerone (106-43 a.C.) in un dialogo: «Chi abita nelle regioni dove l’aria è pura e sottile possiede un ingegno più acuto e pronto ad apprendere di chi respira un’aria densa e pesante». Ovviamente a quel punto l’aria di Atene era considerata sottilissima e quella della Beozia quasi di piombo (ancora oggi beota non è un complimento e non se ne abbiano a male gli abitanti della regione che leggono i quotidiani e hanno un avvocato). Cicerone stesso si rendeva conto che la teoria aveva dei limiti: non è l’aria sottile che fa sì che qualcuno possa andare a lezione da Zenone... E ancora: «La natura del luogo ha rapporto con alcune cose ma con altre non ne ha nessuno». Eppure il dibattito era aperto e soprattutto centrato su un tema chiaro: il posto in cui si vive, attribuisce caratteristiche specifiche. Ma ogni volta che si cerca di capire come e perché, ecco che all’orologio filosofico saltano le molle.
Dopo che con il tempo (e di tempo ce ne è voluto) la qualità dell’aria ha, fortunatamente, perso mordente (con l’inquinamento delle nostre città dovremmo essere deficienti) è rimasto comunque un forte partito filosofico-scientifico a favore delle cause ambientali. Si può vederne il campione in Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu (1689-1755). In Lo spirito delle leggi il pensatore francese si guarda bene dall’attribuire tutto al clima, ma alla fine per lui è l’ambiente a determinare alla lunga i regimi politici e la natura dei popoli. E dunque beati i popoli dei climi temperati. Perché? Perché i climi caldi portano alla vita facile, alla grande intelligenza, alla paura della morte e di conseguenza favoriscono i tiranni che assicurano il quieto vivere. Il clima freddo rende decisamente più difficile la vita, favorisce l’indipendenza e di conseguenza porta magari a essere meno svegli e più brutali, ma porta anche alla libertà individuale. Nei climi temperati si arriva facilmente al vero buon governo che contempera i due elementi.
Una strada su cui Montesquieu viene rapidamente seguito da un altro grande pensatore settecentesco: il ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Nel suo Progetto di costituzione per la Corsica ha le idee chiarissime su quanto influisca l’ambiente: «dalla natura del suolo nasce il carattere primitivo degli abitanti». Guai, secondo lui, a interferire con questo carattere, perché i popoli in questo modo li si uccide, li si priva delle loro virtù primitive. Infatti, parlando dell’indipendenza della Polonia e dei polacchi, era per lui fondamentale preservare «una fisionomia nazionale che li distinguerà dagli altri popoli, che gli impedirà di fondersi... con loro». Era nata la paura della globalizzazione che Rousseau vedeva come imminente. Era frequentando altri popoli che gli svizzeri secondo lui avevano iniziato ad «amare quello che dovevano temere».
Con buona pace del ginevrino, il mondo non è andato a catafascio e i polacchi hanno continuato a essere polacchi nonostante una storia travagliata. E i còrsi sono sopravvissuti alla Francia e persino al turismo internazionale. Sarà che qualche ragione l’hanno anche quelli che si sono contrapposti di più al determinismo climatico, come lo scettico scozzese David Hume (1711-1776), o Voltaire (1694-1778). Quest’ultimo nota come Cicerone scherzasse sull’assenza di filosofi in Inghilterra, e come nel Settecento l’isola sia diventata la patria di pensatori e filosofi d’eccellenza, senza che climi e natura dei luoghi fossero cambiati. Hume a sua volta nota con pungente ironia come i luoghi comuni cambino sui popoli a seconda di chi li pronuncia, e quando. Alla fine a fare la differenza sarebbero solo le istituzioni che modellano il cittadino. E così si arriva a William Godwin (1756-1836) e alla sua Inchiesta sulla giustizia politica. Il clima per lui conta pochissimo e in «qualunque Paese gli uomini liberi saranno saldi, vigorosi e pieni di spirito». Per lui quel che conta era educare. Insomma, era nata l’idea di esportare la democrazia. Eppure oggi sappiamo che un conto è dirlo un altro è farlo.
Ironia della sorte, alcuni insospettabili sostenitori della potenziale eguaglianza tra i popoli si sono poi lasciati andare a teorie razziste che oggi farebbero giustamente accapponare la pelle. Non tutti si ricordano che Kant scrisse, parlando di bianchi e di neri, che la differenza «sembra essere, riguardo alla capacità dell’animo, così grande come rispetto al colore».
Il saggio di Mazza e Nacci fa vedere con grandissima onestà quanto alcuni di questi ragionamenti nel corso dell’Ottocento abbiano preso una piega pericolosamente determinista o contribuito a nazionalismi esasperati o razzisti. Senza riassumere tutto il complessissimo dibattito, ciò che alla fine sottolineano gli autori è che non si può buttare il bambino con l’acqua sporca. Né mettere sotto il tappeto una riflessione secolare perché a tratti fa paura o ha preso pieghe pericolose. «Il carattere nazionale non è scomparso definitivamente, né scomparirà presto... E mentre passa e poi torna di moda, resta una credenza forte e antica. Per tutte queste ragioni, comprenderne la storia e la teoria è tanto difficile quanto essenziale». Anche in qualsiasi ottica multiculturale, perché senza le identità che multi sarebbe?