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 2022  gennaio 30 Domenica calendario

Biografia di Massimo Ranieri raccontata da lui stesso

La consapevolezza di un istrione: “Io? Cammino sempre al fianco del bambino che è in me. In parte gli restituisco l’infanzia non vissuta e in parte condivido con lui le scelte più importanti”. Quel bambino ha consigliato a Massimo Ranieri di tornare quest’anno a Sanremo, lo ha incoraggiato a pensare una nuova paternità a 71 anni, lo porta in giro per l’Italia, ogni giorno con “quattro, cinque, sei ore di viaggio e poi subito in scena”. Quel bambino gli regala ancora lo stupore di un’esistenza (professionale) iniziata con una traversata in nave a soli 13 anni, destinazione l’Ammerica, come si diceva un tempo, e che nei decenni successivi gli ha permesso di incontrare, abbracciare, lavorare, recitare, cantare o solo mangiare con “mostri” (parole sue) come Eduardo De Filippo, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Strehler e altri.
Ognuno di loro è dentro Massimo Ranieri.
E ognuno di loro si materializza grazie a Massimo Ranieri e alle sue imitazioni perfette.
Dopo lo stop da Covid, com’è stato il ritorno sul palco?
Ero commosso, mi tremavano un po’ le gambe, ma è stata un’emozione differente rispetto a tante altre occasioni di debutto; (sorride) il primo giorno ho ripreso una battuta nata quarant’anni fa con Strehler, quando ripetevo: “Scusate se mi impappino”.
Di cosa aveva paura?
Di non ritrovare tutto com’era prima della pandemia. Invece era lì, meravigliosamente granitico, immutabile nei riti, nelle sensazioni, nell’entusiasmo, nella dedizione del pubblico; (pausa) è stato faticoso.
Sempre emotivamente?
Anche fisicamente, perché in parte noi siamo come gli atleti e la voce va allenata.
Nella sua biografia appena uscita parla molto di Strehler…
Quando monto uno spettacolo, ancora lo vedo davanti a me, soprattutto riguardo alle luci: lì sento la sua voce dirmi “cos’è quella cagata che hai realizzato? Non è bello quel taglio, cambia, cambia!”. Le luci di Strehler sono uniche nella storia del teatro.
Ogni volta che lascia il palco per tornare alla canzone sembra sempre un artista che un po’ tradisce…
È vero. Anzi verissimo. Non a caso, a soli 24 anni, ho mollato la musica per dedicarmi al teatro…
Con Patroni Griffi.
Peppino un giorno mi disse: “Tu a da fa’ u teatro. Cummé”. “Maestro grazie, ma sto partendo per il militare”. “Io t’aspietto”. “Per cosa?”. “Tu ha da fatica’ con George”. “E chi è?”. “Ma tu si gnurante!”; (sorride) lui ha tirato fuori la parte attoriale che ogni napoletano ha dentro.
Scusi, ma George chi?
Strehler. Dopo cinque anni sono andato proprio a Milano.
Di Strehler ha intuito subito la genialità?
Lì per lì no, non avevo gli strumenti, insomma non capivo una mazza: mi stupiva solo il suo grado di esigenza, il suo perfezionismo.
Poi?
Dopo poco che stavo lì in compagnia non volevo mai restare in camerino: mi piazzavo ovunque per cercare di capire, di assorbire le sue indicazioni. Era di un altro livello. È lui ad avermi dato la patente di attore.
È stato importante…
Un giorno stavo su un set, vado al trucco e trovo Marcello (Mastroianni, ndr): entro, lo saluto, lui ricambia e mi domanda “che fai?”. “Finisco qui e parto per Milano: vado da Strehler”. E lui: “Cacchio, è come girare un film con Fellini. Te lo meriti”.
Invece non ha lavorato con Eduardo De Filippo…
Nel 1981 si presenta a Milano durante le prove. Tutti fermi. Mi guarda e le sue parole sono fisse nella mia testa: “Non capisco perché non vuoi lavorare con me”. “Direttore chi le ha detto ‘sta strunzata?”. “Eh, me l’hanno detto, me l’hanno detto”. E se n’è andato. Dopo 41 anni ancora non ho capito da chi è partita quella fandonia.
Però in tv ha portato le sue commedie…
Sono testi della nostra storia: da piccolo guardavo i suoi lavori insieme ai miei genitori.
Nella sua carriera chi l’ha colpita per carisma?
Strehler, Luchino (Visconti) e Bernstein; (pausa) aggiungo Franco Zeffirelli e Anna (Magnani). Anna era una giganta: quando arrivava sul set cambiava l’atmosfera, cambiava la luce intorno a tutti. E soprattutto ci azzittavamo; un giorno mi ha chiamato in camerino “ragazzi’, vie’ qui”. Sono diventato rosso.
Addirittura.
Ma avevo 19 anni. Lei mi ha coccolato e protetto come poche altre persone, pure nei rimproveri. “Massimé, la conosci ’sta canzone?”. Resto in silenzio, ascolto e confesso: “No”. “E che cazzo de napoletano sei?”. Era Reginella.
Un suo cavallo di battaglia.
Per forza, l’ho imparata immediatamente; anni dopo ci sentiamo al telefono: “Ragazzi’, ‘ndo vai?”. “America”. “Ah, bene, viemme a trova’ quanno torni”. “Va bene signora”. È stata la nostra ultima conversazione perché un giorno scendo dalla mia stanza d’albergo e trovo la prima pagina dei giornali statunitensi con il titolo “Anna Magnani is dead”.
Le dava del lei?
Certo. Non si poteva dare del tu alla Magnani: era consentito giusto a Luchino e Federico (Fellini), credo neanche a Pier Paolo (Pasolini). Pier Paolo dava del lei pure a Totò.
È vero che Visconti la voleva per Caruso?
Me lo disse Peppino: “Luchino ci vuole a cena a casa sua”. “Oddio, che vò”. “Non ti preoccupare”. Dopo le presentazioni, i convenevoli e i posti assegnati a tavola, venne al punto: “Mi ha detto Peppino che sei molto bravo e ti ho chiamato perché sto pensando a un progetto su Caruso. Voglio te”. Peccato che dopo sei mesi si è sentito male e il progetto è finito nel mio cassetto dei rimpianti.
In quel “cassetto” ce ne sono altri?
Una sera a casa di Zeffirelli per una prima, riservata, dedicata alla visione di Metello. Lì c’era anche Bernstein. Franco me lo presenta e aggiunge: “Sarebbe stupendo un vostro disco in napoletano”. E Bernstein: “Sono d’accordo”.
Così?
Il giorno dopo chiamo la mia casa discografica e felice gli racconto dell’incontro e della disponibilità. Risposta? “Ma dai, che c’importa. A chi lo vendiamo!”. Ed è finita lì. (Pausa) A casa ho una foto insieme a Bernstein: ogni volta che la guardo ancora mi incazzo.
Capitolo Sanremo: il brano è molto bello.
Quando l’ho ascoltato, su di me ha avuto lo stesso impatto di Perdere l’amore (ci ha vinto il Festival nel 1988, ndr).
Il testo sembra il suo racconto di quando è andato per la prima volta negli Stati Uniti…
E io tredicenne che sto sul ponte di prua e vedo sulla banchina i miei genitori, i miei fratelli e gli amici che mi salutano; (sorride) proprio come nei film, mamma sventolava il fazzoletto e piangeva, mentre papà urlava “torna presto!”.
In tour con Sergio Bruni.
In realtà il mio ruolo era quello di servo di scena: gli portavo la sedia, la giacca, magari il tè, poi intonavo un paio di canzoni. Lui è stato il mio primo grande maestro: era superbo; in assoluto è il più grande cantante napoletano, senza fare torto a Roberto Murolo.
Da 13enne all’estero.
Mi sono ritrovato in un mondo inimmaginabile per uno come me: già i viaggi in Cadillac mi stordivano, impegnavo tutto il tempo a giocare con i vetri elettrici o con i tasti dell’aria condizionata. Felicissimo. E poi era tutto grande: a colazione non mi davano un bicchiere di latte, ma un litro; non un uovo, ma sei. Non una tazza di caffè, ma una brocca. Ogni volta quella vista mi stordiva.
Tutto ciò diventerà mai una serie tv?
Non ci penso proprio. Vengo da una scuola teatrale che recita: noi scriviamo sulla sabbia, e conta solo il ricordo, la memoria.
Nel libro spiega che ha lasciato a 24 anni il canto perché ha percepito anche un certo pericolo…
Come diceva Gassman? “Un grande avvenire alle spalle”.
Tradotto?
Da ragazzino ero un barista, uno che portava in giro i caffè, che serviva ai tavoli fino a notte inoltrata, quindi non avevo paura in generale, sapevo quali erano i miei confini, quali le giuste certezze; resta che quel tipo di fama, a soli 24 anni, è difficile da gestire, può diventare pericolosa…
Nel pantheon delle sue emozioni, cosa mette?
A teatro? Aver assistito da spettatore a una recita di Renzo Ricci, un vero mostro di bravura, e aver lavorato con Romolo Valli.
Pasolini lo ha conosciuto?
Alla fine di un partita di pallone, si avvicina, poggia il piede sulla panca, mi guarda e prima che io lo saluti definisce la nostra vicinanza: “Allora è vero che ci somigliamo”. “Così dicono”, replico.
E basta?
(Ride) Sì, però posso dire di averlo conosciuto.
A Sanremo nella serata delle cover canterà Anna verrà di Pino Daniele…
Qui svelo un retroscena: quel brano l’ha composto per Fantastico del 1989, quello condotto da me. Doveva essere la sigla finale, un omaggio ad Anna Magnani. Addirittura ne incidemmo una copia.
E poi?
Quell’incisione la portai al capostruttura della Rai, ma non si convinse. Anni dopo, Pino la lanciò da solo.
Quindi ne esiste una versione cantata da lei e Pino Daniele?
Sì, ma non si trova.
Com’è possibile?
Era su musicassetta: la diedi a mio padre, morto lui non l’ho più recuperata. Ma prima o poi la trovo.
Il suo primo Sanremo.
1968 con Da bambino in coppia con I Giganti: io 17enne ho visto l’impossibile, fenomeni come Modugno, Endrigo o Tony Renis. Non capivo nulla. Li guardavo e non capivo; (pausa) è chiaro da dove venivo? Se uno ha chiaro il contesto può comprendere il mio piacevole stordimento; di quei momenti ho sempre l’immagine di Modugno con la sigaretta in mano.
Nel 1969…
Trovai Louis Armstrong, Lucio (Dalla), Stevie Wonder; tempo dopo vado a New York per presentare un programma sulla musica napoletana. Atterro. Raggiungo la città. E mi dicono: “C’è Lionel Hampton”. Vado. Mi presento. E lui: “So chi sei, siamo stati insieme al Festival”. “Davvero si ricorda?” “Sei fantastico”. Io felicissimo.
Lei a Sanremo 2022…
Andrò molto al bagno, come mi capita ogni volta in queste occasioni: per questo chiedo sempre un camerino vicino alla toilette. Ormai è una forma di rito…
E poi?
Cominceranno i tic, i riti, i dubbi.
Come i giovincelli…
C’è un bambino in tutti noi, e noi purtroppo non gli diamo ascolto perché ci impone molte verità. Quel bambino è sempre con me: quando bussa, lo ascolto e lo subisco perché è il mio miglior consigliere; non ho vissuto l’infanzia, così ora lo porto con me e cerco di farlo divertire.
Massimo Ranieri e Giovanni Calone vanno insieme…
Sono due persone diverse, separate, ma che si tengono per mano.
(Canta Massimo Ranieri ne “L’istrione”: “In una stanza di tre muri, tengo il pubblico con me. Sull’orlo di un abisso oscuro; col mio trac e coi miei tics. E la commedia brillerà del fuoco sacro acceso in me. E parlo e piango e riderò del personaggio che vivrò”).